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La recensione

«Il caftano blu», la lentezza dell’amore

Arriva in sala anche in Italia il secondo lungometraggio della regista marocchina Maryam Touzani

«Il caftano blu» è il secondo lungometraggio della regista marocchina Maryam Touzani, già padrona di un linguaggio cinematografico maturo, fluido e allusivo, e già perfettamente a suo agio nel mettere in scena in modo pacato e discreto, che non esclude sincerità e realismo, un tema difficile come la rappresentazione dell’omosessualità maschile in una società che la considera un tabù. Quella che poco a poco sboccia tra l’esperto sarto Halim e il suo apprendista Youssef, giovane e bello, e devoto, è una vera e propria storia d’amore virile, appassionata quanto priva di smancerie ed esibizionismi. Sarà forse per questo che arriva diritta al cuore, lo ferisce e lo apre. O sarà perché, come spesso succede, l’amore e la passione hanno bisogno di una mediazione e di un’aura di dolore dalla quale fuggire, cioè di una terza persona.

In questo caso è Mina, la moglie sofferente di Halim (intensa l’interpretazione di Lubna Azabal), alla quale non sfuggono le strane riluttanze notturne del marito cosi come le frequenti visite all’hamam, ovviamente frequentato da soli uomini. E poi con un colpo di genio la regista e sceneggiatrice materializza la nascita e lo sviluppo dei sentimenti nella creazione e nel ricamo di uno splendido caftano blu, cucito all’unisono dai due uomini con infinita pazienza, lentezza e cura artigianale.

È un ottimo espediente narrativo che consente al film di arricchirsi di punti vista e personaggi esterni per quanto marginali, e di impedire che la giusta, fluida lentezza della narrazione si trasformi in monotonia. Franco Battiato avrebbe amato molto questa pellicola, poetica espressione e elogio della cura di persone, cose e sentimenti.

Fausto Bona

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