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IN LIBRERIA

«Garbo», la prima vera divina: viaggio al centro di una stella

Grazie alle edizioni Il Castoro sbarca anche in Italia l'imprescindibile biografia scritta da Robert Gottlieb. Gli inizi a Stoccolma come Greta Lovisa Gustafsson, l'arrivo a Hollywood via New York, l'epoca della MGM, il successo mondiale e il ritiro a soli 36 anni: la vita di un'icona eterna
Greta Garbo nel ruolo della ballerina russa Grusinskaya nel film «Grand Hotel» di Edmund Goulding (1932)
Greta Garbo nel ruolo della ballerina russa Grusinskaya nel film «Grand Hotel» di Edmund Goulding (1932)
Greta Garbo nel ruolo della ballerina russa Grusinskaya nel film «Grand Hotel» di Edmund Goulding (1932)
Greta Garbo nel ruolo della ballerina russa Grusinskaya nel film «Grand Hotel» di Edmund Goulding (1932)

La sua stella ha brillato meno a lungo di quella di tante altre divine della Hollywood in bianco e nero: sedici anni soltanto di carriera, a cavallo tra l’era del muto e l’avvento del sonoro, per un totale di ventiquattro film; la maggior parte dei quali, a rivederli oggi (ma forse anche allora), sembrano buttati lì in qualche maniera per offrirle una scusa qualsiasi per indossare abiti e cappelli vistosi, per spalancare gli occhi di fronte alla macchina da presa; un orpello, un fastidio necessario rispetto alla grandiosità della sua incredibile presenza. Eppure, come lei nessuna mai. Forse solo Marylin, che non a caso, come la Garbo era la Garbo punto e basta, divenne quello che è diventata senza bisogno di specificare altre generalità.

C’è quasi un secolo ormai tra noi e la diva che venne dalla Svezia, cento anni e qualche spicciolo di meno. Il suo fascino però continua a esercitare un’attrazione fatale su nuove generazioni di adepti al culto della «fata severa» (come la definì Federico Fellini). Un mito eterno, che rivive pagina dopo pagina in una delle più illuminanti, complete e divertenti biografie che vi possa capitare di leggere: «Garbo» di Robert Gottlieb, portata in Italia dalle edizioni Il Castoro. Il libro definitivo su Greta Lovisa Gustafsson e la sua incredibile ascesa al trono della fabbrica dei sogni: da ragazzina senza una corona bucata nella Stoccolma dei primi del Novecento, a fenomeno globale sotto l’egida della MGM; da apprendista attrice stregata dal teatro, al ritiro dalle scene (a soli 36 anni) e ai lunghi inverni dell’autoreclusione. I cavallier, l’arme, gli amori, le cortesie, l’audaci imprese: c’è tutto nelle quattrocento pagine messe nero su bianco da Gottlieb. La Garbo ufficiale e la Garbo privata, la Garbo delle bizze e dei capricci e la Garbo delle passioni travolgenti, la Garbo distante, diafana, dea implacabile, inarrivabile e la Garbo così fragile, pura, vulnerabile: una vita da romanzo che resta un mistero irrisolto, una domanda non del tutto chiara destinata a rimanere senza risposta.

Unica e diversa fin dagli esordi, sotto l’ala protettrice di un pigmalione estroverso come Mauritz Stiller, regista di talento e dandy di mestiere: fu l’espatriato di origine finlandese il primo a vedere in lei i crismi della divina e colui che probabilmente le impose il nome d’arte Garbo (ma anche qui, come in quasi tutte le cose che la riguardano, i pareri sono discordanti). E fu sempre con Stiller che la giovanissima Greta, non ancora ventenne, senza un’istruzione e totalmente a digiuno del mondo, attraversò l’Atlantico per raggiungere Hollywood via New York. Il primo passo verso l’immortalità, con Louis B. Mayer e Irving Thalberg, il motore e la mente della MGM, che non ci misero molto a capire cosa avevano per le mani. La conferma arrivò dai primi film, e in particolare da «La carne il diavolo» (1926) di Clarence Brown, la pellicola che fissò per sempre lo standard della femme fatale, inchiodandola per un bel pezzo ai ruoli da vamp. Al suo fianco l’amato John Gilbert (che fu suo compagno per un breve periodo), spalla ideale in alcune delle scene d’amore più intense e realistiche che si fossero mai viste (nessun trucco: erano giovani, belli e si amavano davvero). Il passaggio al sonoro, con grande riluttanza considerando l’accento straniero e il tono della voce profondo, gutturale, nel 1930 con lo straordinario «Anne Christie», sempre di Clarence Brown. «La Garbo parla!», fu annunciato in pompa magna durante la campagna di lancio del film; e il suo pubblico rispose di nuovo in massa, estasiato e avvinto anche se la parte non era quella della solita vamp ma di una passeggiatrice del porto di New York. «Portami del whisky con del ginger ale e non essere tirchio, dolcezza!», la prima battuta dell’ex Venere del muto finalmente scesa tra noi peccatori.

Il resto è storia del cinema. «Mata-Hari», «Grand Hotel» (e chi si dimentica dell’indimenticabile Grusinskaya?), «La regina Cristina», «Il velo dipinto», «Margherita Gauthier» di George Cukor, «Ninotchka» di Ernst Lubitsch («La Garbo ride!») e «Non tradirmi con me», l’ultimo giro di set prima dell’inappellabile passo indietro. La fine di tutto. Per sempre. Niente più film, niente più interviste, niente più uscite pubbliche. I tempi erano cambiati e in quella Hollywood non avrebbe più potuto essere la Garbo. «Non pensò mai che si stava ritirando - scrive Gottlieb -, semplicemente se ne rimase a casa». E quando anni dopo David Niven le chiese il perché di quella scelta, lei ci pensò a lungo e poi a voce bassa gli rispose: «Avevo fatto abbastanza facce».•. © RIPRODUZIONE RISERVATA

Luca Canini

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