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La recensione

«Dogman», nel branco con Luc Besson

Ispirato a una storia vera, un film che racconta la vita difficile e violenta di un ex bambino cresciuto tra cani da combattimento e abusi
Caleb Landry Jones
Caleb Landry Jones
Caleb Landry Jones
Caleb Landry Jones

Il cinema di Luc Besson è sempre nel segno dell’eccesso, ma è comunque sempre cinema, spettacolo puro e coinvolgente persino negli stereotipi più spudorati, così come nelle sue ideologie e nelle sue dichiarazioni d’intenti e di sentimenti. E il suo ultimo film, «Dogman», non fa eccezione: è il solito Besson che riesce persino a far sì che l’eterogeneità non sembri un difetto. Certo, bisogna essere Luc Besson, un re Mida in grado di far diventare tutto oro, tutto plausibile. Ispirato alla storia vera di un bambino del New Jersey maltrattato da un padre violento, un allevatore di cani da combattimento che lo rinchiude e lo fa vivere nella loro gabbia, il film ha come premessa la celebre frase di Lamartine: «Ovunque ci sia un infelice, Dio invia un cane». Che si fa pellicola nella più spettacolare delle illustrazioni, con Besson che non nasconde di sposare il punto di vista e l’«umanità» del popolo canino, oltre che la sua intelligenza. Non a caso uno dei punti di forza del film è l’interpretazione di uno straordinario gruppo di cani-attori filmati da Besson con rara abilità. Sono loro la famiglia di Doug, che non è più un bambino. L’incipit ce lo mostra truccato da Marilyn e ferito mentre comincia a raccontarsi alla psichiatra della polizia. Storia dolorosa quant’altre mai, che allegramente, con disinibita competenza, senza il minimo senso di colpa, s’infila in generi cinematografici diversi, il thriller, il dramma psicologico, l’action; generi cavalcati splendidamente dalla straordinaria interpretazione di Caleb Landry Jones, vero punto di forza. Generi che sfiorano e citano il mondo della canzone per emozionarci con Edit Piaf, Yves Montane, Marlene Dietrich.

Fausto Bona

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