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«Close», dal Belgio agli Oscar. D’amore e di altri turbamenti

Eden Dambrine (Léo) e di spalle Gustav de Waele (Rémi): sono loro i protagonisti del film «Close» di Lukas Dhont
Eden Dambrine (Léo) e di spalle Gustav de Waele (Rémi): sono loro i protagonisti del film «Close» di Lukas Dhont
Eden Dambrine (Léo) e di spalle Gustav de Waele (Rémi): sono loro i protagonisti del film «Close» di Lukas Dhont
Eden Dambrine (Léo) e di spalle Gustav de Waele (Rémi): sono loro i protagonisti del film «Close» di Lukas Dhont

Ne abbiamo già scritto la settimana scorsa, è vero, segnalando che purtroppo l’attenzione era stata scarsa all’uscita in sala e che la speranza, vista la qualità assoluta della proposta, era che qualcuno si mettesse una mano sul cuore e gli offrisse una seconda, strameritata occasione. Preghiera accolta: «Close» del regista belga Lukas Dhont, gran premio della giuria all’ultimo Festival di Cannes, si appresta a un secondo passaggio sui grandi schermi italiani, forte anche della benedizione arrivata di recente da Los Angeles, con l’Academy che l’ha inserito nella cinquina di titoli che nella notte tra il 12 e il 13 marzo si contenderanno l’Oscar per il miglior film straniero.

Gioia e giubilo. Se l’avete già visto non guasta un ripasso; se vi manca correte e fate presto perché parliamo, senza girarci troppo attorno, di uno dei migliori film della stagione in dirittura d’arrivo. Non a caso finito nei radar di Hollywood e non a caso ricoperto di premi ovunque sia stato proiettato (toccherà alla solita Mubi, che è stata lesta ad acquisirne i diritti a metà della passerella sulla Croisette, diffonderlo in streaming, anche se non si sa ancora esattamente quando). Protagonisti due tredicenni, Léo e Rémi, legati da qualcosa di più forte di un’amicizia; un quasi amore, con tutta la confusione, le paure, i turbamenti che la definizione dell’identità sessuale suscita a quell’età. Léo è impulsivo, affamato di vita, curioso; la famiglia coltiva fiori, lui aiuta i genitori nei campi, si confida con il fratello maggiore e si sfoga sul ghiaccio indossando i pattini da hockey. Rémy invece è timido, introverso, dolce, più chiuso alla vita e alle novità; suona l’oboe, è figlio unico e affezionatissimo alla madre, che lavora come infermiera nella nursery di un vicino ospedale ed è molto legata anche a Léo. Due anime speculari e a loro modo gemelle: cresciuti insieme, abituati l’uno all’altro, ma costretti e ripensare il loro rapporto «di coppia» nel momento in cui dalle medie passano alle superiori. Si cresce e si cambia. Anche sotto la spinta di fattori esterni, come il giudizio dei nuovi amici, le attese di chi ci sta attorno. E il grande merito di Dhont, dall’alto di una regia meticolosa e soffocante, con la macchina da presa mobilissima e costantemente incollata ai volti dei due giovanissimi attori, pronta a cogliere anche il più piccolo indizio di un sentimento, di un’emozione, di una gioia, di un dubbio; il grande merito del regista belga, dicevamo, è quello di tenersi alla larga da stereotipi e sentimentalismi, da eccessi e indelicatezze, conservando una purezza a un pudore, un’ambiguità affettuosa, una delicatezza che arrivano nel profondo. Senza rinunciare a un tocco personale e a qualche virtuosismo di classe (le carrellate tra i fiori a inseguire le corse a perdifiato di Léo e Rémy; la gita in riva all’Oceano tra cieli plumbei, orizzonti di sabbia e sferzate di vento Altantico), con una fotografia talmente bella da bruciare gli occhi.

Fine del primo tempo. Perché improvvisamente il clima cambia. No spoiler, state tranquilli, ci limitiamo a dire che un’indicibile tragedia si abbatte sul piccolo angolo di mondo dei due tredicenni. Ed è qui che il film si trasforma in una minuziosa e straziante riflessione sul dolore, sulla perdita e soprattutto sul senso di colpa. Conservando il pudore e la delicatezza già lodati qualche riga sopra, lasciando che a gridare, a disperarsi, a farci commuovere siano la forza delle immagini e dei volti (miracolosa l’interpretazione del debuttante assoluto Eden Dambrine, al quale tocca il ruolo di Léo). Fiducia nel cinema, fiducia nella capacità di raccontare l’umano. Quella che manca a troppi film d’autore che si perdono nei meandri di una visione egotica, autocelebrativa, fatalmente vuota. Il 12 marzo, quando la busta con il nome del vincitore dell’Oscar 2023 sarà tra le mani del premiante di turno, non ci saranno dubbi su chi tifare.•. © RIPRODUZIONE RISERVATA

Luca Canini

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