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In sala

«Civil War» e l’America ai confini della distopia

Con Alex Garland in uno spaventoso futuro che ha tutte le sembianze di un domani probabile: un incubo realista travestito da sci-fi

C’è un momento di fiacca micidiale, appena dopo la prima mezz’ora di «Civil War», tra un insopprimibile sbadiglio e i pop corn che stanno per finire, in cui ci si chiede il perché di tanta sofferenza. Non va la storia, non funzionano i personaggi, i dialoghi girano a vuoto, le immagini sfilano senza che niente attiri davvero lo sguardo: tutto sbagliato, tutto inutile.

Poi però, quando si è ormai sicuri di essere inciampati nell’ennesima americanata che sarebbe stata perfettamente a suo agio su Netflix, il film di Alex Garland inizia a stringere la presa attorno alla bocca dello stomaco. Niente più sbadigli e occhiate distratte allo schermo dello smartphone: la sensazione che prende il sopravvento, quasi una nausea, un malessere generale, è di essere finiti in un horror più che in una distopia sci-fi, scaraventati in un futuro alternativo dannatamente plausibile più che in un domani da fantasia al potere.

Certo, la loro parte la fanno le atrocità in serie e le scene di battaglia, dure e crude come non capitava di vederne da tempo, il sangue e i cadaveri, le esecuzioni sommarie e le fosse comuni, ma è la percezione precisa che la seconda guerra civile a stelle e strisce non solo non sia poi così peregrina come ipotesi, ma che addirittura sia già iniziata, a mettere ferocemente a disagio chi si era illuso di cavarsela con poco. Colpisce dove fa più male, «Civil War», sparge il sale del realismo su una ferita che sanguina dai tempi dell’assalto al Campidoglio, era il 6 gennaio del 2021, e che pare destinata a infettarsi ancora di più visto che all’orizzonte, ai primi di novembre, ci sono le presidenziali americane, che arriveranno al dunque in un clima da resa dei conti definitiva, con la terra dell’abbondanza spaccata in due e sempre meno capace di percepirsi come unità al di sopra delle minoranze e delle differenze, di continuare a svolgere il ruolo di democrazia-faro in un contesto globale sempre più incerto e sottoposto a tensioni geopolitiche centrifughe.

Incredibile ma vero

Ecco perché non sa di fantascienza il crollo dell’impero americano, ecco perché alla domanda «potrebbe davvero succedere?» viene da rispondere «sì». L’orrore è a portata di domani, reso ancora più tangibile dalla scelta di affidare il ruolo della protagonista a una fotoreporter: Kirsten Dunst, l’ex icona anni Novanta di Sofia Coppola, perfetta nella parte della professionista amareggiata e disillusa, l’occhio che vede senza giudicare, un po’ «Peeping Tom» e un po’ «Blow Up».

È lei, con due giornalisti e una collega più giovane, ad attraversare un’America in preda al caos, infestata da bande armate che non si sa bene a quali ordini rispondano e a giustizieri privati che non vedevano l’ora di imbracciare il fucile. Non ci sono buoni e cattivi, in «Civil War», e non è facile nemmeno capire cosa sta succedendo: il Texas e la California marciano su Washington, ok, il presidente è asserragliato nella Casa Bianca (dopo avere forzato la mano con un terzo mandato), la Florida ha optato per la secessione, il quadro però resta molto confuso.

Ma lungi dall’essere un limite, come qualcuno si è subito affrettato a far notare, il fumo che sale dalle macerie della modernità e che avvolge sia noi che i protagonisti, impedendoci di vedere più in là dei massacri, è il vero punto di forza della pellicola. Garland ci costringe a tenere gli occhi fissi sulle brutalità, sulla guerra, sul disastro totale che avanza, sul nulla che sta per inghiottire tutto. La fine dell’Occidente come non l’avete mai vista. Raccontata con un ritmo impeccabile, una regia discreta ma efficacissima e il contributo di una colonna sonora clamorosa. «Say No Go» dei De La Soul, «Rocket USA» e «Dream Baby Dream» dei Suicide, «Lovefingers» dei Silver Apples: c’è di che leccarsi le orecchie, oltre che riempirsi gli occhi. Garantisce la produzione della solita A24. E non è un caso.

Luca Canini

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