Nell’estate dei supereroi e dei blockbuster ad alzo zero, tra una sgasata di Flash e le ragnatele dello Spider-Man animato, irrompe il ciclone rosa «Barbie». Il film dell’ex regina della New York indipendente Greta Gerwig, la «Frances Ha» di Noah Baumbach (a proposito: gioiello assoluto atterrato di recente su Amazon Prime), non solo sta facendo il clamoroso pieno al botteghino (siamo già oltre quota 18 milioni di euro in soli due fine settimana, a -2 dal record annuale dell’ultimo «Super Mario»), ma è diventato un vero e proprio fenomeno di costume.
Frotte di ragazzine vestite di rosa. Madri apprensive e preoccupate che pigolano dietro alle figlie. Fratellini trascinati a forza che frignano. Cascate di popcorn. Risucchio da cannuccia praticamente costante. Partecipazione totale con risate, battute anticipate da chi evidentemente se lo vede per la seconda o la terza volta, personaggi dileggiati, urla di incitamento nei momenti clou. E ancora: fotografie scattate allo schermo, videini a non finire, selfie con i poster e i manifesti anche da parte di insospettabili quarantenni. Un delirio collettivo di proporzioni «starwarsiane», una sbornia transgenerazionale inattesa e travolgente.
Fenomenologia del boom
E chi se l’aspettava? Di sicuro non la Mattel, che ci sperava certo ma mai più si immaginava di svuotare il salvadanaio del 2023 e di ritrovarsi in prima fila sulla griglia di partenza degli Oscar. Merito dell’eterna giovinezza di un simbolo che non ha età e che dal 1959 è stato al centro di pulsioni morbose, venerazione fashion e critiche feroci; ma mettiamoci anche l’effetto rimbalzo garantito dal contesto iper-femminista (almeno in superficie) nel quale viviamo, con l’attenzione crescente a tutti i livelli per qualsiasi cosa abbia un vago retrogusto di «sorellanza», di donne contro il patriarcato.
È il marketing, bellezza. Se poi tutto questo faccia più o meno bene alla causa, è faccenda parecchio dibattuta in altre (e ben più autorevoli) sedi. Quel che a noi interessa è la presa sul grande pubblico, che ha risposto in modo sorprendete a una sollecitazione amplificata a dismisura dall’enorme cassa di risonanza dei social.
E il film? Non un capolavoro, ma la premiata ditta Gerwig-Baumbach ci mette tutto il mestiere di cui è capace e alla fine ne viene fuori (quasi) egregiamente. Un prodotto intelligente in modo programmatico (forse un tantino troppo), pensato e studiato per evitare le tante bucce di banana disseminate per Barbieland. Non siamo ai livelli di «Toy Story», ma non si precipita nemmeno nell’abisso di altri esperimenti simili basati su brand e giocattoli. Un pizzico di commedia classica hollywoodiana, atmosfere da musical elegante (Gene Kelly, Stanley Donen, Vincente Minnelli), la giusta dose di citazionismo (l’incipit kubrickiano è irresistibile), qualche trovata mica male, una Margot Robbie accecante e un finale malickiano. Benvenuti a Gretaland: la vie en rose non è mai stata così lastricata di dollari.