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Bridget Jones, i vent’anni della «donna imperfetta»

Mentre si discute se far proseguire le avventure di Bridget Jones in un quarto film o raccontarle ex novo in una serie televisiva, i fan della single più amata (e imbranata) degli anni Duemila festeggiano il ventesimo anniversario del film che l’ha fatta conoscere a tutto il mondo: «Il diario di Bridget Jones», diretto da Sharon Maguire, basato sull’omonimo best seller di Helen Fielding e uscito nelle sale angloamericane il 13 aprile 2001. Oggi è difficile immaginare Bridget con un volto diverso da quello di Renée Zellweger (che grazie al ruolo ottenne la sua prima nomination all’Oscar e divenne una star internazionale), eppure all’epoca, quando fu annunciato il suo ingaggio, in molti storsero il naso all’idea che un personaggio così inglese fosse stato affidato a una texana e non a un’interprete britannica come Kate Winslet o Helena Bonham Carter. Invece la Zellweger prese l’impegno con la massima serietà: modificò il proprio accento con Barbara Berkery (la stessa che aveva aiutato Gwyneth Paltrow per «Shakespeare in Love», 1998), ingrassò venticinque chili e, per prepararsi alla parte dell’impiegata qualunque di una casa editrice inglese, lavorò per un mese sotto pseudonimo alla Picador (la stessa che aveva pubblicato «Il diario di Bridget Jones» nel 1996), riuscendo a non farsi mai riconoscere dai colleghi né come attrice, né come americana. Persino il resto del cast, capitanato dagli inglesissimi Hugh Grant e Colin Firth (nei rispettivi panni del donnaiolo Daniel Cleaver e dello scontroso Mark Darcy, i due uomini che si contendono il cuore di Bridget), si accorse solo alla fine delle riprese che la parlata naturale della Zellweger era completamente diversa da quella della goffa trentenne che beve e fuma troppo, prende decisioni sbagliate e colleziona figuracce, ma continua a sognare il grande amore. Ogni donna imperfetta si è riconosciuta almeno un po’ nelle insicurezze di Bridget, così lontana dalle icone fashion alla «Sex and the City» e così vicina a chi deve ricorrere a escamotage creativi per modellare la silhouette (i famigerati mutandoni della nonna), si consola mangiando cose tanto buone quando terribili per la linea e cerca di mantenere i propri buoni propositi tramite diario. Nessuna sorpresa quindi che il film abbia incassato 280 milioni di dollari e generato due sequel: «Che pasticcio, Bridget Jones!» (2004) e «Bridget Jones’s Baby» (2016).

Angela Bosetto

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