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OVAZIONE IN SALA

Beethoven «riletto», Gorini vince la sfida. E commuove il Ristori

Sul palco Filippo Gorini in concerto al teatro Ristori (Brenzoni)
Sul palco Filippo Gorini in concerto al teatro Ristori (Brenzoni)
Sul palco Filippo Gorini in concerto al teatro Ristori (Brenzoni)
Sul palco Filippo Gorini in concerto al teatro Ristori (Brenzoni)

Godimento per pochi eletti il concerto di Filippo Gorini al Teatro Ristori venerdì sera, un gran peccato vi fosse scarso pubblico. Fortunatamente chi era presente ne è stato consapevole esprimendo un’ovazione continuata, nonostante si trattasse della temeraria interpretazione da parte di un giovanissimo italiano dei maggiori capolavori della musica tedesca, con una storia interpretativa da far paura a chiunque. Un grande sacerdote veronese, don Valentino Guglielmi era solito dire che a ciascuno di noi, essere unico e irripetibile, manca ciò che sono gli altri. Questo è il motivo per cui non finirà mai di sorprenderci una nuova interpretazione delle due ultime sonate per pianoforte di Beethoven, la sonata in la bemolle maggiore op.110, e quella in do minore op.111, se l’interprete ha cose da dire. Filippo Gorini, diplomato all’Istituto pareggiato di Bergamo, è ora riconosciuto internazionalmente come uno dei giovani che hanno il diritto e dunque il dovere di dire la propria.

Cosa ha detto interpretando Beethoven? Principalmente il piacere, la sublimazione più alta del piacere fisico dell’udito e della scrittura pianistica idiomatica. Il primo concetto può essere spiegato ascoltando il suo suono, rotondo, corposo, profondo; non ne strozza mai la vibrazione con scatti per realizzare gli sforzati, sceglie sempre tempi che gli consentano di cantare, di lasciar respirare le frasi, ma senza sdilinquirsi romanticamente. Racconta la forza della costanza, dell’impegno, della dedizione assoluta e della padronanza della mente come negli accordi ribattuti dell’Adagio, terzo movimento dell’ op.110, attento all’uniformità di piani dinamici delle note che formano gli accordi, che si sentono tutte. Nella Fuga a tre voci, con nove entrate complete del tema che Beethoven trae da una stringatissima sintesi di quello del primo movimento, una sorta di deduzione motivica (di un tema che del resto aveva creato molti anni addietro per l’op. 14 n.1, impiegato nella quinta variazione dell’op.109, poi nella Missa solemnis), sintetizzandone al massimo la melodia e contrappuntandola. Gorini cerca il suo suono come Glen Gould, aumentando progressivamente il peso su ogni dita delle mani fino a che diventa un fiume che passa e si allontana. Da questo momento per l’ascoltatore che lo segue non c’è altro al mondo, la mente si riposa e segue cosa accade nella musica, è come assistere alla scalata d’una montagna o alla discesa libera d’un campione di sci.

Per comprendere il concetto del piacere della scrittura idiomatica che Gorini ci chiama a condividere con la sua esecuzione può servire un esempio. Il primo movimento dell’op. 110 è indicato da Beethoven come «Moderato, cantabile molto espressivo», in più scrive fra i pentagrammi della partitura in italiano «con amabilità» e poi ancora «sanft» (morbido) in tedesco. Dopo l’esposizione del primo gruppo tematico e gli arabeschi arpeggiati della mano destra Beethoven suddivide il motivo tra le due mani; chi non suona può comprendere il piacere fisico che il pianista comunica nel realizzarlo pensando all’atto del camminare sulla neve fresca che scricchiola sotto i piedi. Tanto completa è l’esperienza dell’uomo sulla terra che è fatta di testa per equilibrare il corpo e viceversa. Tutti sanno che nell’op.111 nell’Arietta Beethoven giunge a immaginare il ritmo sincopato in levare tipicamente jazzistico. Molti pianisti classici, a partire da Pollini, castigano questo impulso, tentando di mascherarlo. Filippo Gorini accelera e chiarisce tranquillamente la frase.

Nella conclusione del movimento, al limite dell’udibile, il canto diventa lacrime che scendono senza pianto, poi tenerezza consolatoria infine con le terzine della mano destra e nel trillo finale pare di entrare in un lampadario di Murano nel momento in cui si accende la luce. Lo scavo di Gorini in Beethoven equivale alla sua proposta di un brano difficile da decifrare come il Klavierstück IX di Karlheinz Stockhausen del 1961, uno dei massimi esponenti dell'avanguardia musicale degli anni cinquanta, di cui ha offerto come una lezione di saggezza, la scomposizione analitica dei tasselli di cui è composta questa pagina per pianoforte del 1961, di cui ci auguriamo domani di comprendere la bellezza. Bis meraviglioso con Brahms Capriccio in sol minore, dall'op.116.

Elena Biggi Parodi

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