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L’EVENTO

Dylan, quando la
canzone è diventata
una cosa seria

La mostra «I mondi di Bob Dylan» alla Società Letteraria FOTO BRENZONIIl cantautore Massimo Bubola
La mostra «I mondi di Bob Dylan» alla Società Letteraria FOTO BRENZONIIl cantautore Massimo Bubola
La mostra «I mondi di Bob Dylan» alla Società Letteraria FOTO BRENZONIIl cantautore Massimo Bubola
La mostra «I mondi di Bob Dylan» alla Società Letteraria FOTO BRENZONIIl cantautore Massimo Bubola

Beppe Montresor

Riccardo Bertoncelli è, sin dai primi anni '70, il più famoso tra gli storici critici musicali rock italiani. Ha fondato e diretto fondamentali riviste del settore, condotto epocali trasmissioni radiofoniche, diffuso e guidato apprezzatissime collane e linee editoriali, pubblicato decine e decine di opere, saggi, articoli che hanno fatto la storia della bibliografia rock e pop nel nostro paese. La sua popolarità unica è testimoniata anche dal fatto di esser stato direttamente citato, già negli anni '70, nei versi di un cantautore, Francesco Guccini, che lo immortalò ne L'avvelenata. Bertonecelli, che l'anno scorso per Giunti ha dato alle stampe il volume dal titolo emblematico Una vita con Bob Dylan, aprirà gli eventi collaterali alla mostra I Mondi di Bob Dylan (in corso alla Società Letteraria), oggi alle 18, una conversazione con Massimo Bubola alla Bottega dal Vino in vicolo Scudo di Francia, intitolata Dylan e la canzone d'autore italiana (alla conversazione l'ingresso è libero fino ad esaurimento posti, chi vuole poi fermarsi a cena dovrà prenotare, Bubola eseguirà probabilmente anche qualche brano live).

Chi tra i cantautori italiani - abbiamo chiesto a Bertoncelli - le pare aver colto l'essenza fondamentale della poetica dylaniana? «Francesco Guccini è stato a suo tempo vicinm al Dylan prima maniera, quello acustico dei primi quattro albu; già ai tempi di Blonde on Blonde se ne era allontanato. Diverso il discorso per Francesco De Gregori che l'ha sempre seguito, e con lui condivide una forte attrazione per la tradizione popolare folk, però nel suo caso italiana e non americana. Massimo Bubola è un altro cantautore che sicuramente ha ben assimilato certi aspetti tipici della poetica dylaniana, e l'ha anche tradotto. Però direi che nessuno di costoro ha mai voluto essere un "Dylan italiano". Troppo peculiare, sfaccettato e complesso il suo ruolo nella storia rock. Penso anche a quelle sterili polemiche all'indomani del suo Premio Nobel. Qualcuno potrebbe anche sostenere - magari con qualche ragione - che gente come Leonard Cohen o Tom Waits sono dal punto di vista letterario più colti e raffinati di lui, ma nessuno ha avuto come Dylan pari forza nell'elevare a faccenda seria una forma d'arte popolare come la canzone. Dylan ha avuto un potere simbolico senza uguali in questo senso».

Lei lo ha seguito e ne ha scritto da mezzo secolo; quando si è reso conto che Dylan era qualcosa di più e di diverso di una semplice rockstar, che la sua influenza sarebbe stata così forte e duratura? «Negli anni '60 e nei primi '70 anche noi critici eravamo così inebriati e coinvolti dalla forza dirompente del rock e della cultura undergound che ancora non ci preoccupavamo di storicizzarne e categorizzare i protagonisti. Ma credo che sia stato un momento cruciale quando nel '72 uscì anche in Italia la famosa biografia di Dylan scritta da Anthony Scaduto, di cui io scrissi la prefazione. Quel libro fu il primo che trattava di un cantautore rock come si poteva trattare di un autore letterario, da pagina culturale e non da semplice fenomeno di costume come poteva accadere per i Beatles...». Ancora oggi c'è chi considera Dylan soprattutto una studiata costruzione mediatica, un personaggio che da cinquant'anni vive di rendita su un momento creativo di una manciata di dischi negli anni '60, chi lo ritiene musicalmente un mediocre e limitato dilettante. Qualche sera fa in televisione lo scrittore Giorgio Montefoschi ne ha sminuito - peraltro dichiaratamente per sentito dire e non per conoscenza diretta - anche la qualità dei suoi versi...lei ha mai pensato che Dylan possa essere un po' un bluff? «Dylan uno che ha vissuto di rendita, un mediocre dilettante, un bluff mediatico? Ma non scherziamo! Queste sono idee che non mi hanno mai sfiorato! Ci sono stati dei momenti - penso a qualche breve periodo a metà degli anni '80 - in cui magari la sua ispirazione è stata un po' meno brillante, ma per esempio anche album come Oh Mercy dell'89 o Time Out of Mind del '97 sono a livello delle sue cose migliori. Forse negli ultimi anni Dylan si è interessato più al recupero delle radici popolari americane che a sviluppare ancora la sua personale creatività compositiva, forse lo limita un po' il fatto di fare tutto da solo anche come produzione artistica, bada più a divertirsi con quel che piace a lui senza curarsi troppo di divertire anche l'ascoltatore...».

Dylan può ancora affascinare le nuove generazioni? «Penso sia un po' difficile, credo che se si facesse uno screening dei suoi fans si rivelerebbe un'età media sui cinquant'anni... l'eco del suo impatto è ancora legato agli anni '60/70, credo sia un personaggio con un retroterra troppo ricco per le logiche usa e getta degli ascoltatori di oggi...raro che un ventenne abbia la pazienza di affrontare gente come Dylan o come Frank Zappa». Organizzazione di Banco Popolare BPM con la Società Letteraria e l'assessorato alla Cultura del Comune. Coordinamento di Sergio Noto con la consulenza artistica di Enrico de Angelis.

Beppe Montresor

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