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Intervista al grande tenore

Kaufmann debutta in Arena: «Cantare all’aperto? Per me è pura bellezza»

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Un sorriso che conquista. Grande attesa per il tenore Jonas Kaufmann
Un sorriso che conquista. Grande attesa per il tenore Jonas Kaufmann
Un sorriso che conquista. Grande attesa per il tenore Jonas Kaufmann
Un sorriso che conquista. Grande attesa per il tenore Jonas Kaufmann

Annunciato con largo anticipo in una fittissima agenda internazionale, il monacense Jonas Kaufmann, tenore più richiesto al mondo e specialista del repertorio italiano e tedesco, debutta all’Arena di Verona questa sera alle 21,30 in una serata unica e con un programma speciale che ne esprime le due anime: quella del tenore drammatico richiestissimo nell’Opera italiana tra Ottocento e Novecento e quella di artista di riferimento mondiale in Wagner, autore in cui ha appena riscosso un successo clamoroso di pubblico e critica proprio all’Opera di Stato bavarese aggiungendo il ruolo titanico di Tristano al suo già ricco repertorio (dopo Lohengrin, Parsifal, il protagonista dei Maestri cantori e Siegmund).

Accanto a Kaufmann il soprano Martina Serafin specialista del repertorio tedesco (già ospite in Arena in Tosca, Turandot e Nabucco), e il direttore Jochen Rieder, esordiente in Arena, alla guida dell'orchestra areniana.

 

Quali sono i suoi primi ricordi legati all’Arena?

Ci sono venuto per la prima volta negli anni Ottanta da adolescente. Ricordo di aver visto «Tosca», «Carmen» e «Nabucco».

 

Come valuta il cantare all’aperto?

Pura bellezza. Quando la serata è favorevole e il clima sereno, la natura stessa aiuta a entrare in contatto con il mondo della lirica e per il pubblico è più facile rimanere incantato dalla musica. Molte persone considerano il canto all’aperto non abbastanza «puro», ma certe disquisizioni mi interessano poco. Faccio questo mestiere per trasmettere emozioni, quindi perché non andare dove è più semplice riuscirci? Inoltre in una sala chiusa l’atmosfera si riscalda ad ogni aria, mentre all’aperto è il contrario e si respira molto meglio.

 

Cosa rappresentano per lei i compositori che ha scelto per il suo primo Gala areniano, ossia Umberto Giordano, Giacomo Puccini, Giuseppe Verdi e Richard Wagner?

Sono compositori che hanno scritto pezzi di una bellezza incredibile. E penso a quanto sia ingiustamente sottovalutato Giordano: durante le prove la passione di «Andrea Chénier» ci ha travolti tutti. In ogni caso volevo rendere omaggio sia al grande repertorio italiano, sia a quello wagneriano. Contrariamente al luogo comune, Wagner e Verdi (pur diversissimi) non erano nemici, si rispettavano ed erano in contatto artistico. Quello che manca a Wagner è l’idea di «portare» un cantante, che nella sua concezione è una piccola parte del tutto. Invece nell’opera verdiana l’orchestra accompagna il cantante e si lascia molto spazio all’interpretazione personale (in questo trovo Verdi simile a Franz Schubert). Un Verdi cantato solo nota per nota non funziona, occorre dargli una linea e questo per me significa fare musica.

 

Lei ha un approccio assai più fedele a Verdi rispetto a molta tradizione italiana.

Il problema è il concetto di tradizione. Quando è qualcosa che migliora, sono assolutamente d’accordo. Quando invece si fa una certa cosa perché «la fanno tutti» senza riflettere sul motivo, non ha senso seguirla. Non sono un purista che dice «No agli acuti se non sono scritti» però cerco sempre di dare giustizia al compositore e di capire quale fosse l’obiettivo a cui puntava. Quindi mi chiedo: se si cambia qualcosa, si raggiunge meglio tale scopo oppure no? Per esempio, «Celeste Aida» è sì l’aria di un guerriero, ma non è un canto di guerra: è una romanza d’amore e come tale va eseguita con il Si bemolle finale in «morendo», non sparando un acuto a pieni polmoni. Spesso siamo così lontani da quanto è scritto in Verdi che ormai non si tratta più di tradizione, ma di rivoluzione. Inoltre se un artista è particolarmente bravo nell’ottenere un determinato effetto non è che deve mettere questa sua peculiarità in ogni interpretazione...

 

Come è approdato a «Peter Grimes» di Benjamin Britten, che canterà a Vienna l’anno prossimo?

Sono alla costante ricerca di qualcosa di nuovo. Dopo Tristan mi dicevano: e adesso cosa potrai mai fare? E io rispondevo: tranquilli, ci sono sempre nuove sfide con cui confrontarsi. Trovo i personaggi oscuri e discutibili come Peter Grimes molto più interessanti da interpretare rispetto agli eroi canonici. E per noi tenori sono molto rari: di solito questo tipo di ruolo tocca ai baritoni.

 

Sta già pensando alle prossime sfide?

Musicalmente mi interessa molto Pelléas (da «Pelléas et Mélisande» di Claude Debussy) per la sua natura di baritenore e per lo stile particolare. E poi mi manca ancora «Tannhäuser» di Wagner.

Angela Bosetto

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