Brani che i più conoscono a memoria, cantati in coro ai concerti, vissuti. E da stasera, 18 settembre, diventano la colonna sonora di fine estate. Come «Ricominciamo» di Adriano Pappalardo, un altro Adriano nazionale. «La prima volta che sono stato in Arena era il 1979», racconta. «Quando arrivai sul palco sentii un grande applauso, un grande coro, sembrava Italia-Germania… fu una cosa che mi uccise dall’emozione».
E per questa volta cosa si aspetta?
Spero che sarà la stessa cosa. Poi, allora, avevo chiesto agli organizzatori di mettere in prima fila mio padre, che non aveva mai creduto nel mio successo ed era sempre stato ostile, perché voleva un figlio laureato. Fu un grande successo, una grande emozione. Questa volta, invece, ho chiesto di mettere in prima fila mio figlio. Dopo mio padre, mio figlio, questo mi farà un grande effetto. Poi sarà ancora più tremendo, più affascinante, perché vuol dire che ho superato quasi tre generazioni e sto ancora qui.
Lei ha cominciato la sua carriera con Battisti e Mogol: un inizio di tutto rispetto…
Tutto è cominciato quando sentii un disco in radio al mio paese: era James Brown ed ebbi una specie di ispirazione. Allora cominciai a cantare durante le serate in piazza e nei circoli canzoni come «I Feel Good» o «Papa's Got a Brand New Bag», e la gente pensava che fosse un modo strano di cantare. Allora mi resi conto che la mia fortuna era proprio lì. Quando andai a Milano e cominciai a far parte della Numero Uno, l’etichetta di Battisti e Mogol, una sera facemmo una jam session nello studio di Lucio e cantai tutte queste canzoni. Allora lui venne da me e mi disse: «Ma chi sei tu? Come ti chiami». Pappalardo. «Pappa che? È una vita che cerco un cantante come te!».
E da lì?
Nacque il nostro connubio. Dopo che nel ’72 avevo scritto «Una donna», Lucio mi chiamo nel suo appartamento a Milano e mi diede una canzone che aveva scritto anni prima. Così mi propose «È ancora giorno» e nel giro di due mesi vendette due milioni e mezzo di copie. Poi ci furono alcuni anni di successi.
Nel 1979 esce Ricominciamo: cosa significa per lei questa canzone?
Venivo da circa quattro anni di delusione, perché nessuno più mi chiamava più, sai com’è questo mestiere… In quella canzone c’è tutta la mia vita, tutta la mia rabbia. Tanto è vero che Albertelli quando ha scritto il testo la prima volta, non mi piaceva. «Cosa vorresti dire?», mi chiese. E risposi che volevo aprire la finestra, gridare, insultare tutti. Allora, entrò dopo mezz’ora con il nuovo testo, che era perfetto. Quindi adesso se la canzone comincia, non riesco neanche a salire sul palco che le persone la cantano…
Programmi per il futuro?
Il futuro non l’ho mai pensato, perché alla mia età, che sono fiero di aver raggiunto, ho già fatto un bel po’. Il futuro è qualcosa per me più di rinunce che di approvazione. Non farò mai un disco per metterlo sulle piattaforme, non mi metterò mai su un social, non mi vergogno di aver fatto la prima edizione dell’Isola dei Famosi, ma non mi si vedrà mai a fare un altro reality. Ecco, magari scriverò un libro e sa quante pietruzze ho nella scarpa?