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Addio Michel Piccoli, gentiluomo che ha «sedotto» i grandi registi

Michel Piccoli, grande interprete del cinema francese
Michel Piccoli, grande interprete del cinema francese
Michel Piccoli, grande interprete del cinema francese
Michel Piccoli, grande interprete del cinema francese

ROMA C’è una tenerezza amicale nel fatto che la notizia della morte di un gigante come Michel Piccoli sia stata resa nota, con sei giorni di ritardo, da un altro monumento del cinema francese come l’ex presidente del Festival di Cannes, Gilles Jacob in accordo con la volontà della famiglia. Michel e Gilles erano amici veri da una vita; al critico e organizzatore culturale Piccoli aveva affidato nel 2015 il suo bilancio umano e artistico nel volume a quattro mani «J’ai vecu dans mes rèves», un racconto così sommesso e pudico che restituisce in pieno lo stile di un maestro che ha sempre privilegiato i ruoli «laterali», le sfumature in penombra, le interpretazioni corali anzichè il riflettore del primo attore. Con gli anni gli era piaciuto smorzare la sua fisicità virile, in favore di una ambiguità sfuggente che in vecchiaia aveva infine ceduto il passo a un calore umano mai mostrato prima. L’appellativo di maestro non gli sarebbe piaciuto, ma fotografa bene una carriera tesa fino allo spasimo nella ricerca della perfezione, della giusta misura, dell’introspezione fatta movimento. Figlio di un violinista ticinese con ascendenti italiani e di una pianista francese, Michel Piccoli nasce a Parigi il 27 dicembre 1925, nel 13 arrondissment, vecchio quartiere operaio sulla riva sinistra della Senna. Il suo talento per le arti è precocissimo e i genitori lo incoraggiano alla musica e alla recitazione al «Cours Simon» una delle più prestigiose scuole parigine. Comunista fin dall’adolescenza, legherà con i grandi intellettuali della Rive Gauch: la sua seconda moglie Juliette Grèco, Sartre e Signoret in testa. Ateo convinto, irrequieto e appassionato, troverà in Luis Bunuel il mentore ideale che, con perfida ironia, gli affiderà il ruolo del prete ne «La selva dei dannati» (1956). Da quel momento la sua ascesa sarà sistematica e costante, senza mai abbandonare la passione per il teatro, con speciale predilezione per gli autori contemporanei e i giovani di talento. Al cinema ben presto si ritaglia un ruolo nel pantheon del «polar» (il poliziesco alla francese) passando con disinvoltura da poliziotto a criminale nei film di Pierre Chenal, Jean-Pierre Melville («Lo spione», 1962), Costa-Gavras, Renè Clement. Di pari passo lega con gli autori della Nouvelle Vague (Alain Resnais e Agnès Varda in prima fila), anche se la notorietà internazionale gli viene da far coppia con Brigitte Bardot ne «Il disprezzo» di Jean-Luc Godard (1963) e poi con Jane Fonda ne «La calda preda» di Roger Vadim (1966). Viaggia spesso tra Francia e Italia (che diverrà la sua seconda patria) grazie al sistema delle coproduzioni e presto diventa una presenza insostituibile nel cinema francese che ritrae con ferocia e tenerezza la borghesia imprigionata dalle convenzioni e dal perbenismo (i film con Chabrol e Sautet). Nel 1967 ritrova per la terza volta Bunuel in un film che farà scalpore («Belle de jour» con Catherine Deneuve e Fernando Rey) e diventerà il suo alter ego cinematografico per tutta l’ultima parte della storia artistica del genio spagnolo. All’italiano Marco Ferreri (e non è un caso) sarà anche più fedele in ben 9 film da «Dillinger è morto» a «La grande abbuffata» a «Come sono buoni i bianchi»; in vecchiaia troverà nel portoghese Manoel De Oliveira il suo ultimo mentore. Ma in mezzo non c’è regista di vaglia che non lo scelga, chiami, corteggi. •

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