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ADDIO A MOSCHIN
ICONA DEL CINEMA

Gastone Moschin in «Amici miei» con Adolfo Celi, Philippe Noiret, Ugo Tognazzi e Duilio Del Prete, in seguito sostituito da Renzo MontagnaniMoschin al Festival del cinema di Venezia nel 1997
Gastone Moschin in «Amici miei» con Adolfo Celi, Philippe Noiret, Ugo Tognazzi e Duilio Del Prete, in seguito sostituito da Renzo MontagnaniMoschin al Festival del cinema di Venezia nel 1997
Gastone Moschin in «Amici miei» con Adolfo Celi, Philippe Noiret, Ugo Tognazzi e Duilio Del Prete, in seguito sostituito da Renzo MontagnaniMoschin al Festival del cinema di Venezia nel 1997
Gastone Moschin in «Amici miei» con Adolfo Celi, Philippe Noiret, Ugo Tognazzi e Duilio Del Prete, in seguito sostituito da Renzo MontagnaniMoschin al Festival del cinema di Venezia nel 1997

Chi lo potrebbe dimenticare in «Signore e Signori» di Pietro Germi o in «Amici miei» di Mario Monicelli? Gastone Moschin, veronese di San Giovanni Lupatoto, dov’era nato l’8 giugno 1929 (e dove vivono alcuni cugini), è stato un gigante del miglior cinema italiano senza mai curarsi di diventarne un mito. La sua vera vita infatti era sulle tavole del palcoscenico, i suoi interessi erano distanti anni luce dai suoi anti-eroi cinematografici e la sua passione del mestiere gli faceva preferire una parte di contorno perfettamente incisa ad un protagonista fuori fuoco.

Forse la scelta fu casuale, forse incise il fisico: importante e simpatico come nel sorriso che poteva mutare in ghigno, ma certamente abbastanza normale, ai confini dell’ordinario. È morto a Terni, a due passi dalla sua casa vicino Narni, dove si era rifugiato già dagli anni ’90 dando vita, insieme all’ex moglie Marzia Ubaldi e alla figlia Emanuela, a una scuola di recitazione che occupava il suo tempo insieme al centro di ippoterapia con i suoi adorati cavalli. Della fantastica compagnia di «Amici miei», in cui era il goffo architetto Melandri, era l’ultimo sopravvissuto ed aveva partecipato nel 2010 alle feste di compleanno per quello che resta uno dei capolavori della commedia all’italiana.

A Roma, dove era arrivato appena ventenne, si era innamorato del teatro ed ebbe le sue prime opportunità grazie allo Stabile di Genova e poi al Piccolo Teatro di Milano, tra Pirandello e Checov. Approda al cinema nel ’55 con la regia di Anton Giulio Majano («La rivale») e poi sarà ospite fisso dei grandi sceneggiati televisivi dei primi anni ’60. Intanto però, nel 1959, ha una seconda opportunità sul grande schermo e non la spreca, ultimo arruolato nella compagnia dei «Soliti ignoti» col secondo capitolo della saga diretta da Nanni Loy.

Il pubblico e i registi si innamorano di lui per la sua capacità mimetica di «nascondersi» dietro i primi attori per poi spuntare con un memorabile controcanto ironico, la sua arma vincente. Ecco allora in rapida sequenza: «Anni ruggenti» per Luigi Zampa, «La rimpatriata» per Damiani, «La visita» con Pietrangeli, perfino l’epico «Cento cavalieri» con Cottafavi. Capisce presto che i personaggi negativi, un po’ codardi, un po’ marpioni possono dargli spazio per una vasta gamma di tipizzazioni dell’italiano medio, ma il suo vero pigmalione sarà Pietro Germi con «Signore e signori» del 1964. Dalla gavetta teatrale ha imparato l’uso degli accenti dialettali con una predilezione per la lingua madre, il veneto di Goldoni (spesso suo cavallo di battaglia in palcoscenico): il trionfo del capolavoro di Germi è anche il suo.

Così nel 1965 gli propongono finalmente una parte da protagonista nei «Sette uomini d’oro» di Marco Vicario: è una parodia (presa sul serio) del cinema d’azione tra i modelli americani e 007. Il film è un inatteso campione d’incassi e Moschin, nella parte di un genio criminale, ha il suo momento di gloria. Ma continua a praticare la sua arte di cesello sui personaggi minori tra «Le stagioni del nostro amore» di Vancini, «L’harem» di Marco Ferreri e «Sissignore», diretto da Ugo Tognazzi, che fin troppo spesso gli ha rubato (involontariamente) la parte.

Il cinema d’autore degli anni ’70 lo considera ormai un’icona come fa Bertolucci con «Il conformista», subito dopo che Sergio Corbucci lo aveva fatto montare a cavallo per un tardo western spaghetti come il sottovalutato «Gli specialisti». Lo ingaggia perfino Francis Coppola per la seconda parte del «Padrino», ma è nel 1975 con «Amici miei» di Mario Monicelli che compie il capolavoro della sua maturità: eterno bambino, trascinato dal cane e dalla moglie fino alla rovina, disegna un personaggio indimenticabile, che riproporrà cinque anni dopo nel secondo capitolo e poi in quello conclusivo a firma di Nanni Loy. L’ultima apparizione ha il marchio della serialità televisiva con un cammeo in «Don Matteo» nella stagione 2000/2001, mentre il teatro lo ha visto protagonista fino all’ultimo. Era un uomo buono, eternamente impegnato a giocare a nascondino con la sua vera immagine che celava sotto mille maschere davanti alla cinepresa o per il suo pubblico di ogni sera.

«Con Gastone Moschin scompare non solo uno dei migliori e più rappresentativi attori italiani, ma il volto di un Veneto che dalla commedia dell’arte arriva alla commedia di costume mettendo in scena i nostri vizi e le nostre virtù, le nostre debolezze ma anche la nostra forza interiore»: lo ricorda così il governatore del Veneto Luca Zaia. «Come tutti i grandi interpreti sapeva prestare la sua maschera a ogni esigenza registica. E forse per questo è stato uno degli attori preferiti da tutti i grandi registi italiani e non soltanto, si può dire nessuno escluso».

Giorgio Gosetti

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