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Rinchiusi qui anche i rapitori di Dozier

I RICORDI. Ex guardie carcerarie e avvocati ripercorrono la vita e le abitudini del Campone
La cella 8 era famosa perché riservata ai confidenti, che dovevano essere da soli e protetti

 Le chiavi per i cancelli e le celle sono ancora conservate
Le chiavi per i cancelli e le celle sono ancora conservate

 Le chiavi per i cancelli e le celle sono ancora conservate
Le chiavi per i cancelli e le celle sono ancora conservate

Non a tutti fa piacere ricordare, di certo non a chi al Campone ci è stato, magari per poco e perchè, uomo d'affari o politico o amministratore pubblico, era finito nel ciclone di Tangentopoli. Spezzoni di ricordi arrivano da legali (anche se la loro conoscenza era limitata alla sala colloqui) e da chi ci lavorava: le guardie.
«Ci sono ancora le brande in ferro al pianoterra vero? Le hanno lasciate lì, anche alcuni letti sono ancora nelle celle. Sa, vicino all'armeria e alla matricola c'era una stanza dove venivano sistemate le persone arrestate nella notte. Non andavano subito in sezione, entrare nella camerata voleva dire disturbare tutti e lo si evitava». E le prime ore da detenuto spesso uno le passava in guardina.
«Se chiudo gli occhi rivedo ogni metro, potrei girare dentro al Campone ad occhi chiusi. Ricordo i cancelli, i passi che separavano una porta dall'altra, le celle. La più conosciuta era la "cella 8". Si passava il cancello della prima sezione, sulla destra un corridoio con due stanze piccole. In quelle venivano messi i confidenti, non potevano stare con gli altri. Protetti, celle senza finestre per evitare che qualcuno potesse nuocere». Soli, in uno spazio minimo e guardati a vista: forse uno dei modi peggiori di stare in galera.
«Il cortile più piccolo con la torretta? Era per i detenuti della terza sezione. Sempre lì trascorrevano l'ora d'aria i terroristi che rapirono Dozier. Mi ricordo, facevo parte della squadra di vigilanza: eravamo in 15 e il controllo era completamente diverso. Non potevano avere contatti nè tra di loro nè tantomeno con gli altri. Fu un periodo particolarmente duro, la sorveglianza doveva essere strettissima, 24 ore su 24 e senza la minima distrazione».
«Il Campone? Un'altra cosa. L'ambiente era diverso da quello delle carceri attuali. Ricordo che negli anni Novanta iniziarono ad essere arrestati i primi cittadini dell'Est e c'era la necessità di un'interprete e questa signora tutte le mattine attendeva davanti alla porta del direttore. Si offriva di assaggiare i pasti destinati ai detenuti prima della distribuzione, per verificare la qualità del cibo. So che qualche collega avvocato, spesso per motivi contingenti e di tempo, si fermava a mangiare in mensa. Del resto il Campone era attaccato al tribunale e ci sono stati periodi in cui noi trascorrevamo giornate intere passando da uno stabile all'altro».
«La disciplina? Erano in primo luogo i detenuti a mantenerla e in molti casi quando arrivava uno che in carcere non c'era mai stato erano proprio loro a dargli le cose di prima necessità. Mi capita di incontrare per strada alcuni detenuti di allora, ci salutiamo cordialmente, non mi è mai capitato che qualcuno mi offendesse: noi eravamo rispettati e rispettavamo loro».

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