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DI MAMMA CE N'È DUE

AFFETTI. «Hena», torna il libro autobiografico di Grazia Giordani
La Zelda padana, la femme fatale modella del marito. E la madre di una bimba che fu subito orfana Conti rimasti aperti con la vita
La veletta, bronzo di G. Giordani
La veletta, bronzo di G. Giordani
La veletta, bronzo di G. Giordani
La veletta, bronzo di G. Giordani

I crediti che non si possono esigere e i debiti che non possono essere saldati, parlando di sentimenti, sono quelli generazionali, tra genitori e figli, nei due sensi. Capita che neppure il tempo sia galantuomo, che non lenisca e non razionalizzi, lasciandoci una volta di più, soli. Questa storia sarebbe piaciuta all'Henry James del periodo veneziano, protagonisti una donna di grande avvenenza e di ottima famiglia, archetipo degli anni ruggenti all'italiana, più votata alla bella vita che non alla maternità o alla prevedibilità comunque spumeggiante di una vita coniugale, uno scultore di successo che la sposa, un tertium non datur, il veterinario Ennio che la condurrà all'altare dopo la vedovanza, strappandola dalla Bologna degli intellettuali per la Badia Polesine della pianura e del delta del Po, e una figlia di primo letto, Grazia, che nel dare e nell'avere verso la madre e l'eccellente patrigno, e, aggiungiamo, verso la figura del padre, scomparso quando lei aveva solo un anno, ancora non ha imparato la partita doppia. Fra' Luca Pacioli aveva scritto che le passività si iscrivono all'attivo, e viceversa. L'autrice Grazia Giordani firma con Hena, ripubblicato pochi giorni fa dall'editore Il Cerchio, il romanzo del proprio sangue, scritto più in punta di piedi che in punta di penna, e pure diretto, ironico, dolente, à rebours laddove descrive ciò che non ha visto ma ricorda attraverso le parole della madre, fiutata l'aria di chiusa di un baule che conserva lettere, testimonianze, recensioni, cataloghi della Biennale d'Arte, dove tutto è rimasto immoto e pertanto iconico, difeso a doppia mandata dalla figura dominante di Hena, denti perfetti, capelli fulvi e corpo di statua. Colta, blasé, tagliente, una Zelda emiliana, un'ammaliatrice che della figlia apprezzerà più la diligenza che l'avvenenza, consapevole della propria, coagulata prima dello sfregio del tempo in quelle sculture che dicevano dell'ineluttabilità del termine ad quem, lontana dal genio di Giorgio, vicina al secondo marito che la voce narrante, in terza persona, lascia intendere stimato, sì, rispettato certo, ma amato mai. L'uomo di Hena (battezzata senza la h, posata sul nome nei giorni dell'estate, volata via in quelli dell'autunno inoltrato) è morto a poco più di trent'anni, già considerato un protagonista dall'arte italiano, maestro tra gli altri di Luciano Minguzzi. Neanche l'avesse immaginato, Giordani aveva impresso al calendario un'accelerazione frenetica, fatta di dissipazione, di rilancio, di effusione, di scialo. Hena era con lui, cavallo cavaliere arco e freccia. Li azzopperà l'attacco febbrile che brucerà Giorgio in poche ore. Non si svela la trama di un libro che altri leggeranno scendendo e salendo i gradini di una scrittura articolata su piani e tempi diversi, spesso in soggettiva, altrettanto come voce fuori campo e come manoscritto trovato nella bottiglia. Intorno ai protagonisti, il mondo fa da sfondo e non fa rima. Ora è un caffè vicino alla Torre degli Asinelli dove Giorgio Morandi, occhiali sulla fronte, osserva quella signora slealmente bella che guarda nel vuoto, ora è il Polesine della nebbia e dei tramonti sanguinanti, ora è il divertissement verbale su un canone estetico, ora è la parlata gergale della campagna, all'ombra di pioppi capitozzati e di barene che riflettono il cielo. Dallo spunto intrigante di un profumo francese all'odore della terra smossa dall'aratro, dalla favola bella vissuta in prima persona alla constatazione che il solido, concreto, paziente sentimento coniugale e paterno di Ennio è la pietra angolare che sorregge anche Ena (ora senza h) nella sua brillantezza intellettuale, nel suo sovrano buon gusto, nella sua scarsa indulgenza, nella rara, preziosa dolcezza. Un arco temporale di sessant'anni, un atto unico senza sipario, un intreccio di trama e personaggi scolpiti nel Dna, definiti in un trasfert coraggioso, ironico, anche amaro, perché no, un Amarcord ben lontano dallo scrivere la parola fine sull'ultimo foglio dell'ultima lettera, con l'ultima goccia d'inchiostro di una stilografica di bachelite trovata in fondo al baule. © RIPRODUZIONE RISERVATA

Donatello Bellomo

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