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Intervista a Toni Capuozzo

Toni Capuozzo, giornalista  e reporter di guerra in Afghanistan e Nicaragua
Toni Capuozzo, giornalista e reporter di guerra in Afghanistan e Nicaragua
Toni Capuozzo, giornalista  e reporter di guerra in Afghanistan e Nicaragua
Toni Capuozzo, giornalista e reporter di guerra in Afghanistan e Nicaragua

Viaggiare e raccontare, sempre “andando a vedere le cose da vicino”. Vocazioni di una straordinaria esistenza, quella di Toni Capuozzo, che ha saputo incanalarle nella professione di cronista (non solo) di guerra, come tiene a sottolineare, nonostante abbia seguito per quarant'anni conflitti in ogni parte del mondo: dal “battesimo di fuoco” in Nicaragua all'epoca della fallita insurrezione sandinista, alle guerre nei Balcani, in Somalia, in Medio Oriente e in Afghanistan. Un curriculum giornalistico semovente, che non si esaurisce “cessati gli spari”, una delle storie più care a Capuozzo è quella a lieto fine dei 33 minatori sepolti in Cile, perché Capuozzo è stato capace di “raccontare cosa succede anche dove non succede nulla”, il suo primo articolo su Lotta Continua fu quello sul Carnevale di Resia, mentre il primo per Epoca, nel 1986, lo dedica a una pantera nelle campagne friulane. Lì dove sono incastonate le sue radici, che come nota Capuozzo sono un po' «come un elastico, da giovane ti lasciano andare e da vecchio ti richiamano indietro nei luoghi dell'infanzia e dell'adolescenza». Il Friuli, Udine, Trieste, un “mondo di confine”, ma soprattutto una sorta di “bene di rifugio” che ha aiutato il reporter Capuozzo a mantenere i piedi saldamente per terra in una “vita girovaga” compendiata da cronache di guerra e da un mosaico di “Piccole patrie”, (Edizioni Biblioteca dell'immagine, pagine 329), un'opera unitaria di un “narratore di frontiera”, la cui carriera è costellata di premi giornalistici “non cercati”, che per “curare se stesso” si è impegnato a fare “cronache qualunque” raccontando le “paure di Udine e Pordenone”. Un libro carsico all'interno del quale riemergono “sentieri di montagna, odori di pece e di fieno, di polenta e formaggio fresco, di legna nel caminetto”. Senza dimenticare il “mattone”, l'ossessione di un friulano che inevitabilmente rimanda allo “sciame di ricordi” del terremoto del 6 maggio 1976, “il vero e vertiginoso cambio del mio mondo”. Capuozzo, partiamo dalla polveriera afghana. Ha auspicato l'importanza che l'Unione Europea nomini un inviato speciale per “ricattare” il Paese alle prese con una serie di emergenze: alimentare, covid e mancanza di liquidità. Leve di ricatto per il regime dei talebani e di aiuto per la popolazione di fatto sequestrata. Un inviato o un'ambasciata dell'intera Ue è fondamentale per tre aspetti: trattare la possibilità di andare all'estero per chi è rimasto. Tutelare i milioni di afghani che non partiranno, in particolare sulla questione dell'istruzione femminile, e guardare con attenzione il processo di formazione del governo, mantenendo aperti canali anche con l'opposizione riparata nel Panshir, in nome del realismo politico non possiamo tradire chi si oppone ai talebani. Si ripresenta il fantasma dell'11 settembre? Escluderei azioni terroristiche dei talebani in Occidente, sarebbe per loro un pessimo biglietto da visita: hanno tutto l'interesse a risultare presentabili per entrare nei salotti della diplomazia internazionale. I loro interlocutori privilegiati in questo momento sono Russia, Cina e Teheran, tutti avversi al terrorismo. Gli attacchi terroristici all'aeroporto di Kabul come li possiamo inquadrare? Sono opera dello Stato islamico del Khorasan, che ha usato il palcoscenico sul quale sono accesi i riflettori del mondo per tornare alla ribalta. Le dinamiche degli attentati, un'esplosione seguita da colpi d'arma da fuoco, sono proprie dell'Isis, che così ha potuto colpire afghani in fuga, considerati “traditori”, e mettere in difficoltà il regime dei talebani, che dimostrano di non avere il controllo totale del Paese. Gli attentati rappresentano tuttavia un alibi perfetto sia per gli americani e l'Occidente, per chiudere il ponte aereo, sia per gli stessi talebani, che se devono temere l'Isis dimostrano di essere un'altra cosa. E questo fornisce loro maggiore rispettabilità. In "Piccole patrie" scrive: “Ho cercato di tenere a bada i miei fantasmi impegnandomi a fare cronache normali, dopo che per un periodo ero stato in guerra”. Ma il Friuli che lei racconta era “terra di confine non particolarmente quieta e densamente armata”. Non le migliori premesse per “riprendersi” dai reportage di guerra. Quando tornavo da un'esperienza forte insistevo con i miei direttori per andare a raccontare le storie di provincia, il mio terreno preferito, lo reputo un mondo più a misura d'uomo. Per “Panorama mese” ho compiuto un viaggio di 45 giorni percorrendo tutta l'Italia su treno accelerato: dalla Valle d'Aosta alla Sicilia, dalla Sardegna a Trieste. Un viaggio quieto su un'Italia “addormentata” dove l'impeto dello sviluppo e della finanza non era ancora arrivato: è stata la mia cura all'adrenalina dei conflitti. Il suo '68 “poco italiano” è condito da due arresti in Germania e Olanda. Cosa le è rimasto? Mi sono rimaste reazioni positive e negative. La più positiva: l'importanza di prendere parola, la possibilità di dire quello che non andava, quello che si sognava. Oggi sembrano cose scontate e noiose, basti pensare all'assemblea, ma all'epoca furono una conquista. Di negativo: la cappa della politica che ha ucciso lo spirito e molti degli aspetti più creativi e ingenui del '68. Lei che è “titolato a raccontare i terremoti”, ha scritto che “la conoscenza aiuta a governare il fenomeno”, ma che “l'esperienza non funge da vaccino”... La conoscenza aiuta ad avere un quadro razionale, a capire perché succede e succederà di nuovo. E quindi come attrezzarti per non subire danni fatali. Nonostante questo, il terrore che scatena il terremoto non si riuscirà mai a domare perché riguarda la terra su cui facciamo affidamento sin da piccoli imparando a gattonare. Confida: “Non ho mai sognato una scrivania tutta mia, volevo solo viaggiare”. Oggi il giornalismo è una professione impiegatizia, il giornalista passa più tempo al telefono di un impiegato di banca: intraprenderebbe anche oggi questo mestiere? No. Sarei solo scrittore. Mi piacciono molto i lavori di falegnameria, l'odore del legno, anche se non sono molto abile.•.

Dario Pregnolato

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