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Schermi d'amore, via al concorso con «Hadewijch» e «M. Chambon»

SCHERMI D’AMORE. Il concorso è partito con due opere profondamente diverse tra loro. Nonostante sia pretenzioso e ricco di metafore, «Hadewijch» del regista Dumont regge. Minuscola e perfetta «Mademoiselle Chambon» di Brizé
Sandrine Kiberlain e Vincent Lindon in una scena del film di Stéphane Brizé, «Mademoiselle Chambon»
Sandrine Kiberlain e Vincent Lindon in una scena del film di Stéphane Brizé, «Mademoiselle Chambon»
Sandrine Kiberlain e Vincent Lindon in una scena del film di Stéphane Brizé, «Mademoiselle Chambon»
Sandrine Kiberlain e Vincent Lindon in una scena del film di Stéphane Brizé, «Mademoiselle Chambon»

Guarda la sezione completa. Hadewijch, quinto film dell'indigesto regista-filosofo francese Bruno Dumont, ha aperto ieri il quattordicesimo concorso di Schermi d'Amore. Si è trattato di una partenza "tosta", con le provocazioni ideologiche di Dumont doppiate dai silenzi del conterraneo Stéphane Brizé, intento a raccontare le passioni represse di una livida scappatella extra-coniugale in Mademoiselle Chambon, seconda pellicola in gara.
Hadewijch è il nome di una poetessa e mistica cristiana del tredicesimo secolo per la quale l'amore nei confronti di Dio superava ogni altro sentimento. Con lei la protagonista Céline, interpretata dall'intensa Julie Sokolowski, una non professionista di grande talento istintivo, condivide il nome di noviziato e i natali abbienti. L'aspirante religiosa, però, eccede in zelo autolesionista, facendosi cacciare con l'accusa di essere «la caricatura di una suora». Tornata a Parigi abboccherà all'amo di un estremista islamico, finendo per aiutarlo a detonare una bomba. Ma il perdono celeste è dietro l'angolo.
Dumont confeziona il suo film più accessibile: il messaggio sui fanatismi che s'incontrano è forte (lei non si converte, bensì anela al martirio cristiano) ma il ritmo luttuoso e i personaggi appena abbozzati. Alcuni critici hanno tirato in ballo Bresson e la sua Mouchette, ma l'ex professore di filosofia che, parole sue, «non racconta storie e non fa film per il pubblico», resta l'unico abitante del suo mondo filmico. Le metafore si sprecano (letteralmente) fino all'intervento di un Gesù scappato dalla corte di Pasolini. Il film, malgrado sia sghembo e pretenzioso, regge e forse il miracolo è proprio questo.
Brizé, al contrario, propone una pellicola per pochi, minuscola e perfetta nelle sue scarse ambizioni. Vincent Lindon, manovale di buon cuore, padre e marito, s'innamora della maestra di musica del figlio. Dopo un'ora e quaranta di silenzi imbarazzati i due finiscono a letto e decidono di scappare insieme, ma lei finisce sola in stazione e lui a piangere in automobile.
Non fosse per la bravura dei protagonisti Lindon e Sandrine Kiberlain si potrebbero rinfacciare a Brizé una trita ispirazione (rustico operaio perde la testa per diafana violinista) e uno svolgimento prosaico e noiosetto.
Ma il film è permeato da una sincerità genuina, tanto da diventare inattaccabile: cinema ridotto allo scheletro, che troverà pochi spettatori tra i veri muratori, che non hanno tempo per questo genere di lambiccamenti.

Adamo Dagradi

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