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Venerdì presenta il suo libro a Verona. L'intervista

Prodi: «Con i social ci si sfoga ma non ci si esprime. Il covid? Ha insegnato che non ci si salva da soli»

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La copertina del libro di Romano Prodi «Strana vita, la mia»
La copertina del libro di Romano Prodi «Strana vita, la mia»
La copertina del libro di Romano Prodi «Strana vita, la mia»
La copertina del libro di Romano Prodi «Strana vita, la mia»

Il professor Romano Prodi si racconta per la prima volta nella biografia «Strana vita, la mia» (Solferino) al teatro Stimate di Verona venerdì alle 18 dialogando con Marco Ascione, Francesco Chiamulera e Guariente Guarienti, in collaborazione con US.Acli Verona e libreria Jolly.

Abbiamo chiesto all’autore, già capo dell’IRI e premier per due mandati, nonché presidente della Commissione Europea, di approfondire i temi del libro.

 

Professore, perché definisce la sua vita “strana” e non “straordinaria”?

Per vari motivi. Ho iniziato la mia carriera politica chiamato come esterno a fare il ministro… ma, altro motivo, in un solo caso da me fortemente voluto, quello dell’Ulivo, ho provato a unire riformisti di tradizione socialista, cattolica, liberale divisi dal Muro di Berlino, ci sono riuscito e insieme abbiamo costruito qualcosa di nuovo e importante.

 

Per lei, il dialogo e la collaborazione sono parole d’ordine: ma come mai talvolta si è preso del divisivo?

I due concetti possono coesistere: qualcuno riunisce i riformisti, qualcun altro i conservatori perché le democrazie moderne funzionano così, quindi automaticamente sono stato divisivo per una parte, ma sempre dialogando. Un mio motto è “a parlare con San Francesco sono buoni tutti, a parlare col lupo è un problema”, però bisogna parlare anche col lupo, sennò ti azzanna.

 

In politica vengono prima le persone, le idee o le proposte?

Penso che bisogna unire coloro che hanno proposte concrete e tra loro compatibili per il bene comune, e poi sfidarsi in una bella campagna elettorale facendo appello all’adesione delle persone per evitare il distacco, l’astensione.

 

Nel libro, all’indice dei nomi tra i più citati ci sono Andreotti, D’Alema e Berlusconi, molto meno Letta, Renzi e Conte…

Certo, io ho finito la mia attività politica nel 2008 e non si parlava di Renzi nè di Conte. È un’altra storia, sono stato rigorosamente rispettoso dei miei tempi.

 

Eppure molti la coinvolgono tuttora come saggio consigliere…

Alcuni mi chiedono consigli, altri rifuggono dai miei consigli. Però non sono più entrato nelle stanze del potere da quando ho lasciato perché credo che sia importante “non disturbare il conducente”, com’è la regola di chi va in autobus.

 

La nostra democrazia è sempre più fragile e richiede riforme. Ci sono modelli da seguire?

È un grande problema, non solo dell’Italia ma di tutto il mondo. I regimi autoritari hanno acquistato terreno in Asia, Africa e America Latina. E mentre la Cina sta catalizzando a sé altri Paesi in condizioni di debolezza, la democrazia è meno di riferimento. Dobbiamo irrobustirla, ricostruire il rapporto fra cittadini e governanti.

 

Lei è un economista: l’economia deve andare a braccetto con l’etica?

Non c’è dubbio, ma conciliarle è complicato. Negli ultimi 30 anni la divisione è stata eccessiva e ha fatto crescere le tensioni; solo da poco si sta prendendo coscienza della gravità dei comportamenti dell’ultima generazione, c’è un risveglio ma ancora non si è tradotto in una politica efficace. Peraltro io non ho mai aderito alla dottrina di Reagan e della Thatcher che hanno cambiato il mondo col motto “non esiste la società ma esistono gli individui”. Ritengo che questi siano tra loro legati, si esprimano veramente dentro la società.

 

Nel libro scrive che non ama slogan e retoriche: forse ci sono troppi personalismi e parole vuote?

Quando la partecipazione cala, il ruolo dei protagonisti si fa dominante ed emergono i solitari. Bisognerebbe tornare a una grande consultazione popolare, a far coinvolgere concretamente la gente ad un obiettivo, come io ho sempre tentato di fare.

 

Energie provenienti dal basso…

Democrazia vuol dire che il popolo ha la sua parola, anche con i difetti. Perlomeno prima si facevano i congressi con migliaia di partecipanti; oggi non c’è un vero contatto, con i social ci si sfoga e non ci si esprime.

 

E il Covid ha peggiorato?

Sì, ma tra le tragedie che ha provocato almeno ha avuto un vantaggio: far capire alla gente che ci si salva insieme. La vaccinazione è simbolo delle nuove realtà, dove tutti imparano a collaborare.

 

Cosa dire ai giovani in questo tempo?

Di studiare e prepararsi, non trascurare il faticoso lavoro della preparazione per l’idea di arrivare in fretta. Ma poi il nostro è un grande Paese che non ha bisogno delle primedonne, ma di quelli che sanno cantare in coro.

 

E la sua famiglia, ben presente nella biografia?

Mio padre Mario studiò alle scuole tecniche, poté diventare tenente nella Prima guerra mondiale e, mettendo via un minimo di risorse, continuò all’università per poi da ingegnere essere assunto dall’amministrazione provinciale di Reggio. Mia madre Enrica era maestra e mi diede la prima lezione di politica: “Mamma, per chi hai votato?”, “Per la Repubblica, perché i re non scappano”. Un buon insegnamento alla responsabilità. Con mia moglie Flavia sono 52 anni di matrimonio. Ogni giorno ci confrontiamo sugli avvenimenti, ci consigliamo le letture, ci aiutiamo camminando nella stessa direzione.

 

Nella vecchia Emilia dei rossi e bianchi, dei Peppone e Don Camillo, lei dove si vede?

Sono stato consigliere comunale nella Dc di Reggio Emilia, ma più avanti ho lavorato per la coalizione riformista, unendo in parte Peppone e don Camillo.

 

In quest’anno dantesco, è attuale “Ahi serva Italia, di dolore ostello”? Dante oggi farebbe il Presidente della Repubblica?

In questo momento abbiamo un nocchiero, ma le decisioni in certi ambiti non sono molto diverse da quelle di Dante. Per carità, lui l’hanno cacciato in esilio: quindi non farebbe il presidente, ma neanche il valvassore.

 

E per arrivare al vertice?

Il Presidente della Repubblica non è quello che ha più voti, ma quello che ha meno veti. Se lei allude alla mia persona, io di veti ne ho tanti.

 

Ci ha pensato in passato?

A me è piaciuto fare il Presidente del Consiglio.

 

Anche di più del ruolo in Europa?

Sono emozioni diverse, due sfide avvincenti per il proprio Paese e a livello globale.

 

Tra i politici stranieri e italiani, a chi rivolge la sua stima?

Come rapporto personale, mi sono trovato bene sia con il cancelliere tedesco Kohl sia con il presidente francese Chirac. E ho apprezzato Bill Clinton per l’intelligenza e il dono di far convergere le opinioni di coloro che sedevano al tavolo. Di Kohl ricordo il suo arrivare al sì o al no gradatamente, una decisione raggiunta come esito condiviso. Con Chirac c’è stato un periodo di simpatia e lavoro comune: mi ha fatto comprendere che la politica non è solo razionalità, è anche passione; è chimica, rapporto personale, fiducia. Sugli italiani non vorrei pronunciarmi.

 

A Verona, che messaggio dà all’economia locale che si rialza dopo la pandemia?

L’Emilia e il Veneto stanno dimostrando una maggiore capacità di reazione rispetto ad altri e, in fondo, le nostre regioni hanno grande dinamismo nell’economia.

 

I suoi prossimi impegni?

Fino al 2017 ho insegnato in Cina e negli Stati Uniti. Scrivo, tengo lezioni e conferenze: mi basta il lavoro intellettuale e spero di continuarlo ancora.

Stefano Vicentini

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