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Riscoprire l’800 da Hayez a Ciardi

Ippolito Caffi Festa notturna a San Pietro di Castello, Venezia
Ippolito Caffi Festa notturna a San Pietro di Castello, Venezia
Pellegrino Beethoven

La riscoperta della nostra pittura dell’Ottocento è iniziata con la mostra al Museo delle Albere di Trento nel 1987 con «Segantini» curata da Gabriella Belli, che ha poi proseguito nella ricerca sul Divisionismo e sul romanticismo ottocentesco con due mostre, fra il 1990 e il 1992. Nello stesso anno a Palazzo Reale un'altra grande e ricca mostra «Il Primo Ottocento» (primavera estate 1992) e quattro anni prima, a cura di Renato Barilli coadiuvato da un prestigioso comitato scientifico, «Il Secondo Ottocento Italiano» (maggio settembre 1988). Una premessa necessaria per ricordare che una nuova mostra dedicata al nostro Ottocento, per tanti anni se non bistrattato, certo poco stimato, non può che interessare: «Il mito di Venezia - Da Hayez alla Biennale» curata da Elisabetta Chiodini (con comitato scientifico in cui, mi spiace, manchi Gabriella Belli), allestita nelle sale del Palazzo Sforzesco di Novara dal 20 ottobre al 13 marzo 2022 (con ricco catalogo per le edizioni METS). Vale la pena verificare le scelte espositive, proprio a partire dal titolo, perché i pittori più presenti, Guglielmo Ciardi, Giacomo Favretto ed Ettore Tito di cui si espongono numerose tele, raffinate e pregevoli, dovrebbero essere i «cantori» del mito di Venezia arrivando alla prima Biennale 1895. Guglielmo Ciardi fu nel comitato organizzatore della Prima Biennale veneziana ed espose due pitture; ebbe una personale nel 1909 con 57 opere e varie altre presenze fino a una retrospettiva con 42 opere nel 1928. Così Ettore Tito, con sei Personali; meno Giacomo Favretto con una Retrospettiva del 1928. Angelo Dall’Oca Bianca con una grande Personale (83 opere) nel 1912; Luigi Nono con una Personale nel 1901; così Alessandro Milesi con una Personale nel 1912. Un po’ meglio Mario De Maria (Marius Pictor) anch’egli con una Retrospettiva del 1928. Tranquillo Cremona (una Retrospettiva anche per lui nel 1928 come Daniele Ranzoni); Federico Zandomeneghi, una Personale nel 1914; Giuseppe De Nittis (una Retrospettiva anche lui nel 1928). Infine Giovanni Fattori – la «macchia» dei «macchiaioli» - ancora una Retrospettiva nel 1928. Infine Giovanni Boldini: una Retrospettiva, questa volta nel 1934. Perché tante Retrospettive nel 1928 nelle varie Biennali? Credo che la risposta si data dalla ricerca, dai tentativi di Margherita Sarfatti di recuperare con due mostre (1926 la prima, 1929 la seconda: «Novecento Italiano») una linea, oggi diremmo sovranista-nazionalista, della pittura italiana di un secolo dimenticato. Però né Margherita Sarfatti, né i curatori delle Biennali veneziane sembra sapessero quello che avveniva in Europa con le Secessioni fine secolo di Vienna, Monaco e Berlino e nella più vicina Francia a partire da Impression Soleil levant del 1872, con cui Claude Monet apriva la strada della pittura contemporanea, con un seguito sempre più grande e sempre più importante e otto mostre: dal 1874 al 1886. La novità occidentale dell’Impressionismo aveva attratto e raggruppato i grandi mondiali del XIX secolo: Degas, Pissarro, Renoir, Manet, Sisley, Cézanne, Gauguin, Seurat, Morisot, Signac ed altri meno noti, come Caillebotte, ma non meno importanti. Per non parlare di pittori secessionisti di cultura sassone. Parlare di pittura italiana dell’800 senza ricordare l’effettivo ritardo che artisti presenti alla Biennale Veneziana, a partire dalla prima del 1895, non sentivano, non vivevano; continuavano non a guardare in avanti, ma indietro (potevano almeno ricordarsi dei grandi del Settecento: i Guardi, i Canaletto e altri ancora) alla tarda pittura di figura di eventi di paesaggio che la fotografia stava letteralmente cancellando dalla storia della rappresentazione. Se n’erano accorti De Nittis, Zandomeneghi, Boldini, forse anche gli «scapigliati». Non se n’erano accorti tutti gli altri come non se ne stavano accorgendo i curatori delle varie Biennali anche se invitavano i grandi d’oltralpe, come rarità da fa stupire, piuttosto che da far capire. Cosa capivano i nostri giovani artisti di Klimt esposto nella terza Biennale del 1899? Ma anche i vari Lega e Signorini, sempre alle Biennali, cosa capivano della ritrattistica di Manet, di Degas, di Renoir della giovane Berte Morisot ? Per questo la mostra nel Palazzo Sforzesco di Novara è importante: come appunto storico da tener presente per ricordare i ritardi che hanno caratterizzato la nostra ricerca artistica per tanti decenni. Non dico un secolo, tanti decenni: bisognava respirare l’aria di Montmartre, del Carrè Rive Gauche, dei bistrò di Monteparnasse, per scoprire che si era aperta non una piccola rima, una fessura, s’era spalancato un immenso cielo di luci, di colori, di animose impressioni alle quali nulla importava della tela di un pur bravo pittore (Alessandro Milesi): «El fio de me fio» del 1885 (un anno prima dell’ultima collettiva degli impressionisti) tenutasi nei locali della Maison Dorèe di Rue Lafitte. Bisogna attende il «canto pittorico» degli artisti che si trovavano in autunno a Burano: Semeghini, Moggioli, Gino Rossi, Barbisan, Scopinich, Cadorin, Springolo, Pieretto Bianco, Seibezzi, Ravenna, Dalla Zorza. Non una scuola: una Venezia ritrovata nel mito delle callo, dei campielli, delle contro-Biennali della Bevilacqua la Masa e Ca’ Pesaro. Se a Novara si vuole riprendere a studiare la complessità di cent’anni di pittura italiana dalla metà del XIX secolo ai primi del XX, allora ben venga questo tentativo.•. © RIPRODUZIONE RISERVATA

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