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QUEL GIORNO INIZIÒ IL MONDO GLOBALE

L’attentato alle Twin Towers: era l’11 settembre 2001
L’attentato alle Twin Towers: era l’11 settembre 2001
L’attentato alle Twin Towers: era l’11 settembre 2001
L’attentato alle Twin Towers: era l’11 settembre 2001

La paura del terrorismo che si traduce in paura dell’altro, gli attentati che vedono la violenza cieca e gratuita abbattersi contro gli innocenti, il bombardamento di informazioni spesso contraddittorie tra loro, capaci di insinuare incertezze e generare intolleranze. Sono questi i fantasmi con cui conviviamo giornalmente a vent’anni dall’attentato alle Torri Gemelle, quell’11 settembre 2001 che ha cambiato il mondo divenendo uno spartiacque drammatico nella vita dell’intero Occidente. In un simile contesto la riflessione interculturale diventa strumento necessario per trovare un orientamento e dare un senso a quanto sta accadendo, e alle conseguenze sulla vita dei singoli e della collettività. A raccontare questa necessità è Adone Brandalise, docente di Teoria della Letteratura all’Università di Padova e direttore, dal 2000 al 2019, del Master in Studi Interculturali. Professor Brandalise, cosa ha significato per lei l’11 settembre? Per ciò che mi riguarda questo evento ha incentivato una riflessione teorico-filosofica e politica per quei processi che hanno comportato il progressivo sgretolarsi dei parametri con cui avevamo letto l’ordine del mondo fino a quel momento. La domanda che mi sono posto subito è stata: cosa è successo veramente l’11 settembre? Non apro la porta su ipotesi complottiste, mi chiedo quale sia stato l’effetto complessivo di quell’evento e cosa lo abbia reso possibile, ossia quanti processi si siano condensati nel crollo di quei grattacieli e nella morte di migliaia di persone. La prima sensazione è che l’11 settembre abbia segnato una data oltre la quale sarebbe stato molto difficile tenere in piedi le classiche politiche di tipo progressista e riformista, anche nel nostro contesto europeo. E credo che per molti versi stia accadendo qualcosa che si connette con quella sensazione. Un esempio su tutti? La pretesa, per molti versi ideologica o anche semplicemente di copertura, di portare un modello di democrazia in un paese come l’Afghanistan, dove Europa e Stati Uniti sono andati proprio a partire dalle vicende del 2001, e che sta terminando con la creazione di un regime. Una situazione che finisce per essere vissuta come accettabile, così come avviene per regimi nei quali le caratteristiche che noi attribuiamo a uno stato democratico sono cancellate. Penso alla Turchia, all’Ungheria, alla Polonia. A partire dall’11 settembre la percezione del mondo è stata filtrata attraverso il binomio terrorismo - antiterrorismo, due termini che sembravano far tacere tutto il resto. Ho la netta sensazione che negli anni, a causa di questo binomio, sia cresciuto un muro di diffidenza nei confronti di un preciso aspetto della tematica interculturale, quello legato alla valorizzazione in positivo di un fenomeno complesso come quello dei grandi flussi migratori. Prima si tendeva a vedere esclusivamente le qualità positive della globalizzazione, e si faceva il possibile per farle emergere. Poi è arrivato lo shock del terrorismo a livello planetario. Il che ha portato a una rappresentazione negativa della realtà, sempre più stereotipata e assurdamente semplificata. Quello che è accaduto ci ha costretti, dunque, a rivedere la realtà. Sicuramente, perché ormai è impossibile comprendere i fatti accaduti sulla base di categorie politiche, giuridiche e sociologiche classiche. Una vicenda come quella dell’11 settembre si è tradotta in effetti sismici che hanno riguardato le prospettive e gli ambiti di ricerca e attività intellettuali più diversi. Certamente hanno ricevuto un forte impulso da questo evento le tematiche geopolitiche, così come le discipline di ricerca sulle relazioni tra culture e mondi intellettuali diversi. E intanto anche la riflessione sulla relazione con l’altro è accresciuta di importanza ed è certamente complessa, visto che per essere davvero utile dovrebbe essere priva di condizionamenti. Tuttavia andrebbe tenuta in maggiore considerazione la prospettiva storica, mentre invece si assiste troppo spesso a un’evanescenza della memoria. Quale è stato il cambiamento più significativo nella nostra vita a partire dall’11 settembre? L’attentato ha impresso una sollecitazione particolare, tutta da interpretare, ai processi di globalizzazione. Ci ha messo di fronte a un dato di realtà: l’immagine che si aveva di una felice circolazione mondiale di merci, uomini, idee si è rivelata tutto sommato un ideale ingenuo. E nonostante questo ci ha ricordato la necessità di dover pensare comunque, oramai, in termini mondiali. Ciò non significa mettere insieme, uno accanto all’altro, una serie di scenari, significa piuttosto riformare la qualità stessa del nostro sguardo. Quanta importanza rivestono gli organi di informazione nella percezione degli eventi dell’11 settembre e di quanto è accaduto a partire da quella data? Per rispondere torno all’Afghanistan, un Paese intimamente legato all’attentato del 2001. L’Occidente ha speso una quantità infinita di risorse economiche senza pensare a una realtà umana per la quale dimostrare un effettivo interesse, al di là delle immediate ricadute a livello strategico e di gioco geopolitico. È stato un grande sbaglio: il capitale sociale mondiale è fatto prima di tutto di esseri umani, e se fosse guardato con maggiore attenzione risulterebbe positivamente più produttivo. La violenza esplode quando intere popolazioni vengono viste come irrilevanti nelle loro aspirazioni, o quando avvertono come unica reazione possibile la violenza. Il senso del lavoro interculturale ha questo sottinteso, e sarebbe importante che l’informazione cominciasse a dare qualche spazio a questa antica evidenza. Invece, spesso gli organi di stampa subiscono il condizionamento della propaganda politica, e l’informazione tende a sposare un bisogno emotivo di forte enfasi. Per fortuna noto minoranze significative, soprattutto tra i giovani, molto attente alle dimensioni del sociale, propense a muoversi nell’ambito del volontariato, desiderose di attingere a forme di informazione qualificate e intellettualmente responsabili. Sono le persone consapevoli di come solo in questo modo si possa intrattenere un rapporto non banale con le dinamiche attraverso cui si forma il nostro pensiero. Esiste un modo per condurre una riflessione più attenta e profonda su quanto è avvenuto? Bisognerebbe sfruttare maggiormente l’esperienza di professionisti che hanno impiegato larga parte della loro vita a conoscere l’altro attraverso lo studio e il lavoro sul campo: imprenditori, ricercatori, sociologi, cooperanti. Persone portatrici di stimoli costruttivi nati dal confronto tra il proprio percorso e tutti gli spunti di riflessione che scaturiscono da differenti punti di vista. Una ricerca, questa, che conduce chiunque sia solito riflettere sul senso dell’incontro tra culture, dando così voce e attenzione a chi desidera comprendere le cose nel modo più reale e profondo. La vera informazione non è quella capace di rispondere bene a una domanda. È quella che genera altre domande. Ricordiamoci che non si fa informazione vera quando si dice: “Non occorre dire altro”. È sbagliato pretendere un risultato chiavi in mano. Dobbiamo invece sollecitare il patrimonio umano, e provare a farlo evolvere al meglio, anche investendo su studi specialistici, per dare strumenti ai giovani di oggi, nati dopo quell’11 settembre.•.

Silvia Allegri

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