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Pino Castagna, da Costermano
liberava la vita delle sculture

Pino Castagna a Costermano. L’artista si è spento all’età di 85 anni
Pino Castagna a Costermano. L’artista si è spento all’età di 85 anni
Pino Castagna a Costermano. L’artista si è spento all’età di 85 anni
Pino Castagna a Costermano. L’artista si è spento all’età di 85 anni

«A volte mi sembra che la materia che ho davanti mi dica: aprimi, vieni a trovarmi a liberare la forma che c’è in me. Ed io mi vedo al lavoro per rintracciare la forma».

Così confessò più d’una volta Pino Castagna, scultore, ceramista, fonditore, vetraio, disegnatore e incisore finissimo che da oltre mezzo secolo ha vissuto il silenzio della creazione nel sommesso parlottare dei suoi collaboratori sulle dolci colline che da Costermano scendono a Garda, in quel laboratorio fra grandi monumenti verticali (gli Iroko, il Muro, Le mura di Gerico) che ogni viaggiatore lacustre nazionale e internazionale conosce da decenni: da quando nel 1969 aprì l’ atelier.

Dal silenzio, la meditazione e dalla meditazione la riflessione che umanizza le osservazioni che via via si rivelano, che concretizza in lavoro la scoperta diuturna delle forme e le trasforma in soggetti.

Così nasce la scultura, così nascono le ceramiche e i vetri di Pino Castagna, morto la sera del 22 febbraio a 85 anni: da una emotività domata e liberata, di volta in volta, sul discrimine difficile del gusto e della cultura, della conoscenza e dell’istinto, del caso e della ripetizione dei gesti.

Opere che si liberano dalla forza inventiva e scopritrice dell’occhio che guarda: il grande occhio dello spirito che guarda e sa vedere, che vede perché sa guardare.

Per questo non ti devi stupire, se lo incontri per la prima volta, che Pino Castagna, lui, l’autore delle Mura di Gerico (6,7 x 7 x 23 metri), delle archisculture di decine di metri (La Cascade de Beynost, a Lione, 9 x 9 x 33 metri), dei grandi tronchi (Iroko prigione, 6 x 1,10; Iroko, 8 x 1.90 metri), dei Canneti in ceramica, delle Vele o dell’incredibile Foresta di Birnam (formata da 537 barre metalliche su supporto di cemento 3,65 x 8,16 x 6,35 metri) non sia imponente.

Anzi: gli guardi le mani e le vedi sofferenti, tormentate; come tormentato fu a lungo il suo corpo dopo una caduta giovanile avvenuta nel 1956, quando aveva 24 anni. Le sue opere le conosco almeno dalla prima mostra veronese alla Galleria Ferrari (1963) e poi a Linea 70 (1971), e poi alla entusiasmante esperienza della grande mostra all’aperto in Castelvecchio del 1975, realizzata da Magagnato.

Una conoscenza che si è puntualizzata con le mostre che Castagna ha tenuto in tutto il mondo, dagli Stati Uniti al Giappone, culminando nel 1986 con la XLII Biennale veneziana, vicino a Mastroianni e Franchina, e saldamente documentata nella monografia mondadoriana del 1991 (a cura di G.F. Bruno e G.M. Erbesato, con ampia antologia critica) e, venticinque anni dopo, dalla rassegna presso Palazzo Barbaran di Castelgomberto (VI) dal 3 al 18 ottobre 2015: «Public Matters – Le opere pubbliche di Pino Castagna». Una mostra dove i modellini respirano la grandiosità delle realizzazioni e ad esse rimandano con vivacità e luminosità, che sono la caratteristica prima delle archisculture di Castagna. Infine nel dicembre dello stesso anno un omaggio alla sua arte da parte di diciassette fotografi del Fotoclub di Costermano: fotografie che rapiscono luci e ombre dalle sue sculture. E fu l’ultima pubblica partecipazione.

La sua fu una ricerca che, oggi più che mai , sembra andare contro corrente: la ricerca del difficile come unica soluzione alla faciloneria e al pressappochismo. Una ricerca indifferente alle mode, ancorata alla realtà storica culturale civile del luogo dove ci è dato di esistere.

Di questa ricerca ancorata alla storia si è nutrito Castagna, un artista che Verona sembra conoscere poco, o conoscere saltuariamente, anche se ne può ammirare alla sede Glaxo di via Fleming il frontone dell’Auditorium di 33 metri ideato con Novello Finotti e in piazza Isolo quel grande Spino di filo spinato per ricordare la Shoah, dimenticando di avere avuto alle sue porte uno dei grandi maestri che fanno oggi nel mondo la storia dell’arte italiana.

Se aveste potuto trascorrere mezza giornata nel laboratorio di Costermano, avreste scoperto che vi approdavano da ogni parte d’Europa, dal Giappone, dagli Stati Uniti studenti e artisti, critici (da De Micheli a Ragghianti, da Magagnato a Santini, da Dragone a Belli, Caramel, Crispolti ...) e mercanti, per studiarlo, per conoscerlo, per contattarlo.

Per studiare le fasi di una ricerca che giorno dietro giorno nasceva nel suo laboratorio a tre piani: al piano terreno lo spazio per le grandi sculture, al primo piano la ceramica e i cinque forni di cottura, al piano superiore il suo studiolo e i vetri. In ogni piano lavoravano con lui e per lui collaboratori (alcuni con Castagna dagli inizi) con i quali il maestro da sempre aveva stabilito il rapporto di primus inter pares.

Insieme lavoravano e lui li guidava, li provocava e si lasciava provocare, li seguiva e si faceva seguire. Su di loro stava come il maestro stava nelle botteghe venete fino al Settecento, in quelle toscane del Treuattrocento, in quelle lombarde del Cinquecento. Ma lui è andato oltre: ha reinventato le grandi forme spaziali di una architettura fine a se stessa, che diviene strumento di visione dell’umano nella natura, di reincarnazione della storia dell’uomo e della divinità nella natura, del gesto che l’uomo creatore possiede e con il quale rivela agli altri la presenza del divino. E per questo una creazione archiscultorea da vivere: non solo da toccare, di passarvi per farla vivere e suonare, come avviene per la Foresta di Birnam.

Francesco Butturini

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