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Le scuse al funerale di Trivellin

Scopre che il padre fu un aguzzino fascista: «Perdono lui, non le sue scelte»

Ennio Trivellin nel 1944 era stato uno di quei partigiani-bambini della Brigata Montanari, la stessa in cui Sergio Menin era entrato da infiltrato.
A sinistra Marco Menin, figlio di Sergio il delatore. A destra Ennio Trivellin il 5 maggio 2019 a Mauthausen
A sinistra Marco Menin, figlio di Sergio il delatore. A destra Ennio Trivellin il 5 maggio 2019 a Mauthausen
A sinistra Marco Menin, figlio di Sergio il delatore. A destra Ennio Trivellin il 5 maggio 2019 a Mauthausen
A sinistra Marco Menin, figlio di Sergio il delatore. A destra Ennio Trivellin il 5 maggio 2019 a Mauthausen

La scoperta per Marco Menin è arrivata solo all’età della pensione: quel «buco nero» nella storia di papà Sergio, coperto per 76 anni dal silenzio, era fatto di pagine e pagine di storia di un’Italia in guerra, pagine tragiche nelle quali il padre compariva sì, ma come carnefice. Dentro quel silenzio Marco cullava l’illusione che il papà «avesse maturato col tempo almeno un po’ la consapevolezza degli errori fatti».

La scoperta per Marco Menin è arrivata il 27 gennaio di due anni fa: la visita al Carro della Memoria in piazza Bra, due parole con la vice presidente dell’Associazione degli ex deportati Tiziana Valpiana seguita dalla curiosità di capire se nella sconfinata «libreria» del web comparisse il nome di suo padre.

Così 76 anni dopo la tragica fine della Brigata Montanari composta da partigiani-ragazzini finiti in campo di concentramento, Marco aveva scoperto che in quelle pagine suo padre compariva come aguzzino. Era morto nel 1997, esattamente all’età 76 anni. Coincidenze.

I silenzi sul passato, la scoperta e poi la rivelazione

«Della guerra a casa si parlava poco. Mi aveva raccontato qualcosa delle sue esperienze durante il servizio militare fino al ritorno a Verona dopo l’8 settembre ai comandi del suo carro armato. Dopo sapevo solo che aveva aderito alla Repubblica di Salò, ma mai nessun particolare mi è stato raccontato. E io nulla ho chiesto: c’era un patto non detto per lasciare in ombra quel periodo».

Il silenzio, dunque. Lo stesso silenzio che aveva permesso a molte vittime di continuare a vivere dopo essere sopravvissute. Nell’uno e nell’altro caso, però, cioè nelle parole dei superstiti che trovarono la forza di testimoniare e nelle rivelazioni di Marco Menin su suo padre, c’è lo stesso obiettivo: testimoniare perché l’essere umano non commetta mai più gli stessi tragici errori. 

Martedì Marco lo ha fatto davanti a tutti chiedendo che al camposanto, dove le spoglie di Ennio Trivellin sono state affidate alla terra, venisse letta una lettera «per porgergli quelle scuse che mio padre non aveva trovato il coraggio di fargli prima di morire». Ennio Trivellin nel 1944 era stato uno di quei partigiani-bambini della Brigata Montanari, la stessa in cui Menin, col nome di battaglia di Uccello, era entrato da infiltrato. Sedici anni il primo, ventitrè il secondo: in mezzo l’abisso.

Le scuse per le atrocità del padre

«Mio padre ha fatto davvero cose atroci, che non sono assolutamente giustificabili, neppure ritornando al clima della guerra civile. Proprio il fatto che ne abbia parlato con tanti ma non con suo figlio, con la persona che contava di più nella sua vita, mi fa illudere che, in qualche modo, avesse maturato col tempo almeno un po’ la consapevolezza degli errori».

«Il mio affetto e la mia clemenza nei confronti della persona», chiarisce subito Marco Menin, «non possono in alcun modo essere trasferiti alle sue scelte politiche. Fare memoria delle sue vicende non può significare ignorare il giudizio della storia. E mio padre quella guerra civile ha coscientemente scelto di viverla dalla parte sbagliata».

Con una sorta di contrappasso si è avvicinato per questo all’Aned, così ha costruito l’incontro con Ennio Trivellin un anno fa e poi, martedì, ha scelto che tutti sapessero, ha voluto che le sue parole legassero insieme e riconciliassero il suo e l’altrui dolore, quello di chi è figlio della parte sbagliata e il dolore dei figli delle vittime. Lo ha fatto scegliendo di ricostruire una storia raccontata anche «attraverso chi ha avuto la sfortuna di incontrarlo allora ed ha avuto la fortuna di sopravvivere alla guerra, alla deportazione, alle torture», consapevole, nel profondo, «che Sergio, mio padre, era ed è rimasto fascista».

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Paola Dalli Cani

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