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TRADIZIONI

L'intervista alla «siora Olga», vent’anni di veronesità al baretto con Gino

La popolare rubrica de L’Arena celebra una data significativa: aneddoti e ricordi
23 dicembre 2008: la festa della Olga al 12 Apostoli con Silvino Gonzato, Giorgio Gioco e  gli attori del teatro Estravagario
23 dicembre 2008: la festa della Olga al 12 Apostoli con Silvino Gonzato, Giorgio Gioco e gli attori del teatro Estravagario
23 dicembre 2008: la festa della Olga al 12 Apostoli con Silvino Gonzato, Giorgio Gioco e  gli attori del teatro Estravagario
23 dicembre 2008: la festa della Olga al 12 Apostoli con Silvino Gonzato, Giorgio Gioco e gli attori del teatro Estravagario

L'ho fatta nascere un po' anzianotta e, pur con la sua schietta e amabile ironia, se n'è qualche volta lamentata. «Se avessi avuto dieci anni in meno, non mi avrebbe descritta come tondetta e un po' tracagnotta. Glielo chieda al mio Gino se non ero un figurìn, si giravano tutti, e non dall'altra parte, come direbbe lei se non l'avessi anticipato, avevo i fianchi da rumba e da cha cha cha». D'altra parte, cosa voleva, sióra Olga? Che la facessi nascere donzella, la donzelletta che vien dalla campagna? «Eh no, siór, mi no vegno dalla campagna anca se no gò gnente contro la campagna, ansi. El le sa che son citadina come lu, citadina rionàl, no del centro». La protagonista della mia rubrica doveva essere una popolana un po' stagionata, visto che nella stagionatura (nel senso di piena maturità, bando agli equivoci) si concentrano le migliori virtù: la saggezza dovuta all'esperienza, l'onestà e la rotondità di pensiero, il buon senso consolidato che affonda le radici nei sentimenti torniti, la battuta pronta e fresca, benevolmente ma volutamente tagliente, a volte un po' finemente volgarotta, come può capitare a una donna del popolo che, se le scappa una parola un po' colorita, tanto par farsi capire meglio, non si morde la lingua.

L'ho fatta nascere il 26 luglio 2002, santi Gioacchino e Anna, sindaco Zanotto, primi impacciati saldi con l'euro, Mammut che batte John Wayne al Palio dei Mussi di Roncà. L'Arena, il nostro giornale quotidiano, aveva ancora la vecchia terza pagina, quella letteraria, che veniva immancabilmente dopo la seconda e prima della quarta. La Cronaca ospitava "Botón e buséta" di Dino Coltro e "Così per gioco" di Giorgio Gioco, il cuoco-poeta, tesoriere e cantore baritonale della veronesità, co-fondatore con Montanelli, Biagi, Nascimbeni e Marchi, del Premio 12 Apostoli: erano rubriche fresche, sorgive, cristalline, scrigni di antiche memorie, pozzi da cui il secchio risaliva traboccante di saggezza popolare, secchio a cui si dissetava, ovviamente, anche la Olga.

Vent'anni: tanti ne sono passati da quando, in un pomeriggio afoso, scovai quella che sarebbe diventata l'eroina di oltre quattromila rubriche (a spanna). Lavorava in un supermercato come addetta all'ortofrutta. Dipendente anziana: ci teneva a specificarlo perché la qualifica le conferiva una certa autorità, se non altro morale. Era sposata col Gino che però sarebbe comparso in una puntata successiva. Poco più di un cameo, all'inizio. La coppia era appena rientrata dal mare, pensione Oleandro, mezza stella, camera vista bare (c'era un'agenzia di pompe funebri proprio nel palazzo di fronte), tuoni e fulmini per tutta la durata della vacanza. Se ricòrdela, sióra Olga? «Òrpo, se me lo ricordo. Gliel'ho raccontato io, vuole che non me lo ricordi? Il mio Gino correva dietro all'ombrellone della Coca Cola volato via col vento perché temeva che glielo facessero pagare». E lei sbadigliava... «Fin che me marì el ghe coréa drio a l'ombrelón de la Cola Cola?».

No, sióra Olga, sbadigliava quel giorno che l'ho conosciuta al supermercato. Mi sembrava stracca a annoiata mentre montava la guardia alle pesche spagnole, alle albicocche portoghesi, alle susine greche, alle pere cilene, alle mele argentine, all’uva dell’Anatolia, alle arance uruguaiane, ai fichi egiziani, alle zucche sudafricane e alle patate olandesi. Plotò (come li chiamava lei) foresti mentre i nostri, colmi di pesche nostrane, di fichi nostrani, di pomi nostrani e di tutto il resto nostrano, per colpa della Cee, come imprecava lei, se ne andavano all'estero. «E lu l'è restà infulminà da mi...». Piano, Olga, di fulmini lei e suo marito ne avevate appena scansati fin troppi al mare. Avevo visto in lei la portavoce di chi non ha voce, vale a dire di tutti quei veronesi di sensatezza e probità inossidabili che non avevano modo di farsi sentire ai piani alti e lei ne aveva i requisiti, una cittadina qualunque, amante della città, con la metrica spontanea del dialetto, San Zen nelle vene, do bèle ganassòte piene, òci furbi, léngua come un manaréto, pan al pan e vin al vin. «Cittadina qualunque vol dire stupidòta? Lu co' le parole el ghe zuga. Va ben che no gò fato le scóle alte ma stupidòta propio no, almanco me par».

Tutt'altro, sióra Olga, semplicità non significa stupidità ed è nella semplicità che si annida l'anima pulita e genuina della città. Poi alla Olga ho messo nelle costole il Gino, un buon ometto anche se un po' maldestro, tutto casa, balón, bici e bareto, il che vuol dire che, in realtà, a casa non c'è quasi mai. E poi ho coinvolto el bareto al completo, un modello di integrazione di identità disparate da contrapporre all'intolleranza e ai rigurgiti razzisti che si spera sempre siano sbréndoli al vento, telarìne che basta un colpo de scóa par tirarle zó e poi invece ti accorgi che sono sempre lì. Bella umanità quella del bareto! Tutti attori di una commedia che va in scena quotidianamente, senza mai chiudere per ferie: el ragionier Dolimàn, presidente del dopolavoro ragionieri e dell'associazione culturale "No ghe ne podémo più", genio da bar che ha una risposta per tutto, tucùl all'Atollo di Moruri, deus ex machina, anzi, più precisamente deus ex Galletto Guzzi, il suo Ronzinante; il cinese Tan detto Tano, el Tegolina, el Surla, el pitór Alfio detto Goghèn, l'architetto Mastegabrodo, el cavalier Marandèla, l'immigrato Lulelè, el Surla, el politologo Scoatìn dell'università di Cavaión, il filosofo-psicologo-sociologo Strusa, discepolo dell'eminente pensatore indiano Mudàn Mudandàssa, il celeberrino autore della monumentale opera "L'importanza di non essere mona", ventiquattro tomi e molte pipate di oppio. In tutto cento e più avventori, di ogni ceto, di ogni risma, manca solo il ladro di cavalli, visto che c'è anche un agente della Pinkerton, el Bepi Usta. A volte sembrano evasi da un manicomio sulla Luna ma si tratta di ventate di follia sana, compatibile con l'allegria dello stare insieme. «Sàlo cosa penso? Ch'el podéa fàrghene de manco de inventàr el bareto, così el me Gino no'l sarìa sempre là a sbeaciàr, a zugàr a le carte e a sghimàrghe le gambe a la Beresina, quela de la minigona panoramica, quela...». Ma, sióra Olga, se non ci fosse la Beresina a servire ai tavoli e a mostrare un po' di mercanzia, la clientela invece di aumentare diminuirebbe, un bareto varrebbe l'altro. Corsi, quando era assessore comunale, non voleva forse mettere una ruota panoramica in via Pallone per aumentare i turisti? L'idea era buona ma il posto no. Il panorama non sarebbe stato altro che quello del cimitero monumentale. Sulla giostra sarebbero salite solo le vedove. «Bella testa, però, el Strusa, 'sa dìselo, siór Silvino?». Sì, una testa fina, una de le mèio de Verona. Si ricorda, sióra Olga di quel giorno che doveva tenere una conferenza e spedì l'oste Oreste a chiedere al parroco una ventina di caréghe perché quelle del bareto non sarebbero bastate? Voleva la sala piena. Purtroppo, però - come ha osservato lo stesso Strusa - quando si aumentano le caréghe, i posti in piedi diminuiscono, per cui il pieno non si riesce mai a farlo. Ma lei non sa, sióra Olga, perché l'ho battezzato Strusa. «El me diga, son tuta réce». Quando ero al liceo, il professore di filosofia venne sostituito da un supplente che non aveva evidentemente la stessa preparazione e a noi studenti sembrava anche un po' a disagio. Un giorno (ero 'na braza cuèrta, come diceva mia mamma) alzai la mano e, per metterlo in difficoltà più di quanto non fosse, gli chiesi: «Professore, non ci ha ancora parlato del filosofo Strusa».

Il nome me l'ero inventato all'ultimo momento. L'insegnante ci pensò un po' e poi rispose: «Ragazzi, dovete capire che se ci mettiamo a fare anche i minori non riusciamo a finire il programma». Ecco com'è nato lo Strusa. Come vede, sióra Olga, i personaggi della rubrica non sono buttati lì a caso e anche i nomi sono appropriati, cuciti addosso su misura. «Si però, l'Ernestina, la Serazade delle Mattozze, che fa la danzatrice del ventre... no'l podéa trovàrghene una più zóena e con manco ràpole?». Le ràpole fanno scena: sbatterle da una parte all'altra come fanno i piti con i loro bargigli e rotearle a centrifuga dà più ampiezza e sensualità al movimento. Ma un'altra cosa voglio dirle a proposito dello Strusa. Lei forse non sa, sióra Olga, che poco dopo l'esordio su L'Arena del nostro filosofo-psicologo-sociologo, l'Ordine degli psicologi del Veneto lo ha diffidato perentoriamente dall'abusare del titolo. Il suo nome non risultava infatti nell'albo della categoria. «Bèla, questa, ma lei però qualche volta esagera, siór Silvino, el me méte anca mi ne le pétole. Quante volte gàlo ciocà rento all'ex assessorina Pippi Calzelunghe? No se vergògnelo gnanca un poco?». In realtà, la Pippi mi mancherà e mancherà anche a lei, sióra Olga. Se non fosse stato per la Pippi che, dopo il brutale e inutile abbattimento da parte del Comune di centinaia di alberi per una filovia che non c'è ancora e che non ci sarà forse mai, ha donato (con gli schei degli sponsor), come compensazione ai veronesi che ne hanno fatto richiesta, piante e piantine per rinfoltire giardini e balconi, se non fosse stato per la Pippi, ripeto, lei e il suo Gino non avreste un baobab sul pontesèl.

 

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Devo dire che in vent'anni di sodalizio non abbiamo mai ricevuto una querela, vero, sióra Olga? L'abbiamo rischiata, ma solo rischiata quella volta che, spedita a casa l'amministrazione Zanotto dalle elezioni del 2007, abbiamo ironizzato (non si tiri fuori, abbiamo ironizzato insieme) sulla mesta fila degli assessori e dei consiglieri trombati che dovevano restituire i telefonini di servizio, tre-quattro a testa. Un ex assessore ci voleva portare davanti al giudice per chissà quale reato, sennonché uno che in Comune contava lo ha preso in disparte e gli ha detto: «Sai che figura di m... che ci fai a portare in tribunale la Olga?». Mi ha salvato lei, sióra Olga, è lei l'inaffondabile celebrità, se non fossimo stati in società forse mi avrebbero condannato ai Piombi.

Tanti lettori in questi vent'anni mi hanno chiesto se la Olga avesse figli e, se sì, come mai non ne scrivesse mai. E io sono sempre rimasto sul vago. Magari la Olga e il Gino hanno dei figli e, data l'età, anche dei nipoti, ma sai che casino a mettere in pista anche loro? Altro che il circo Barnum! El bareto, la figliolanza, la nipoteria, la congrega delle betòneghe che fanno da contorno alla cittadina qualunque: ce n'è abbastanza. Egoisticamente ho preferito non solo non pensarci ma alla stessa sióra Olga non ho mai chiesto niente in proposito e lei (di questo la ringrazio) non è mai andata sull'argomento, ammesso che ci fosse, e ci sia, un argomento. Un'altra domanda che mi viene posta spesso: «Ma in quale quartiere abitano la Olga e il Gino? E il baretto dove si trova?». Uno degli scrittori da me più amati, William Faulkner, per ambientarvi i suoi romanzi si è inventato una contea, la contea di Yoknapatawpha che (lo dico per la sióra Olga) si pronuncia Yoknapatòfa. Dare le coordinate del condominio della Olga e del Bareto Da Oreste e magari anche della Trattoria dai Onti dove i nostri vanno a mangiare le trippe significherebbe tradire la centralità di una narrazione che si pone in qualche modo e con presunzione come specchio della città. E allora a chi mi scocca la domanda rispondo: «A Yoknapatòfa», e allo stesso modo potrei dire «Quartiere Salmistranza» o «Quartiere Battisole».

La Olga è stata anche argomento di tesi di laurea. È una bella soddisfazione che anche i giovani leggano la rubrica. La tesi di Federica Guidotti, del 2018, è intitolata "La Olga, il dialetto nella quotidianità". Mai la nostra cittadina qualunque avrebbe pensato di essere catapultata, seppur indirettamente, dalle scóle basse agli atenei senza passare dalle scóle alte. Gli ultimi anni di questo ventennio sono stati i più tribolati. Per mesi e mesi la Olga non ha scritto che di pandemia (non c'era altro) e di cadenassi alle porte delle case. Lo ha fatto a suo modo: nel rincuorare se stessa e il suo Gino pensava di alleviare anche le preoccupazioni e le ansie dei suoi lettori. «Grazie, Olga, anche stamattina mi hai regalato un sorriso». La letterina era scritta a mano con grafia incerta. Una sola riga e la firma: Giuliana. In questo mondo orrendamente ingorgato il più bel sorriso è quello che ti regalano i lettori, un sorriso e una carezza colti al varco, lievi e dolci come pastella di frittelle. Pandemia, guerra in Ucraina, bollette assassine, siccità, il Vacamòra che attraversa l'Adige a piedi senza bagnarsi le sgàlmare nel punto in cui il nonno faceva il passatore col barcone nero come quello di Caronte. Vent'anni di Olga: il nipote della Cesira, nato in quel lontano luglio, se ci fosse ancora la leva sarebbe sotto la naja.

 

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Eppure all'inizio la Olga temeva di non essere accettata. Figuriamoci il burattinaio, quello che ha messo in piedi tutta la baracca e ne era l'unico responsabile. Quanti dubbi dopo l'uscita della prima rubrica. Ma già pochi giorni dopo arrivò al giornale una lettera di Giorgio Gioco: «In un spiansìso a le oto de la matina i la lese (la Olga) da Vipiteno a Cortina e zó fin a Cesenatico» (d'estate la Olga viaggia con L'Arena che raggiunge i luoghi di vacanza). Essere subito accettati dà una grande libertà. Si prende coraggio e si va avanti, magari scrivendo qualche volta anche delle monade ma si va avanti. Èla cosa dìsela, sióra Olga? «Digo solo che tuto l'è nato dai pèrseghi spagnoli, dalle albicocche portoghesi, da l’ùa dell’Anatolia... Ci l'avarìa mai dito? Ero prossima a la pensión». Già. «Ci l'avarìa mai dito!» esclamò la Gloria, la figlia della Elide, moglie del Remigio del bareto, quando rimase incinta passando in bicicletta da via Cantarane, co' la so pedalada alta. •.

Silvino Gonzato

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