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Le distanze dell’amore tra la madre troppo bella e la figlia troppo piccola

Il primo libro Carmen Verde ha scritto «Una minima infelicità»
Il primo libro Carmen Verde ha scritto «Una minima infelicità»
Il primo libro Carmen Verde ha scritto «Una minima infelicità»
Il primo libro Carmen Verde ha scritto «Una minima infelicità»

In un verso fulminante, il poeta Milo De Angelis afferma: «lontano un padre». Una unità di misura, la distanza tra gli esseri umani, che tutti abbiamo dentro e può essere espressa in millimetri o in chilometri, ma sempre ci offre anche la nostra dimensione. Come siamo rispetto ai padri e alle madri? Grandissimi, piccolissimi? La protagonista del romanzo «Una minima felicità» di Carmen Verde - Edizioni Neri Pozza, 2022 - è piccolissima e talmente lo è da sembrare più giovane della sua età, scrive lei stessa. Sono, le sue, dimensioni metaforiche rispetto ad una madre, Sofia, grandissima, una dea, satura di mistero e impossibile da conoscere e riconoscere se non quando le distanze si ribaltano e la madre diventa la figlia e la figlia può finalmente prendere un posto nel mondo della madre, diventarle visibile, ingrandirsi e giganteggiare per lei come sotto una lente ottica. In mezzo a questo misurarsi ci sta anche una «minima infelicità», una dose che si penserebbe innocua ed invece è, sempre per il gioco delle lontananze che pervadono il bellissimo libro, immensa, pervasiva. Nella poesia in prosa della scrittrice al suo esordio, l’infelicità è cantata a bocca chiusa, come quando si mugula un dolore di cui ci si vergogna. Appartiene, indicibile pur se descritto a brevi e precise pennellate, alla madre Sofia e che la figlia Annetta (nome non a caso al diminutivo) cerca invano di carpire, di prendere per la coda e di mutare in felicità. Non sa come fare. È una bambina e può solo rincorrere eternamente il vagare della bella madre come volesse sfiancare una sofferenza interiore, consumarla come un cerino. Le sue gambette tentano in ogni momento della vita di raggiungere la falcata della grande madre ma non potranno, nemmeno in sogno. C’è un unico momento in cui Annetta pare annientare la distanza: quando scoprirà che anche il padre è infelice e questo sentimento accomuna, diventa un collante, un segno distintivo, diventa famiglia. Ma, certo, l’infelicità è beffarda e non permette di creare nuclei compatti ma continuamente fa svanire tutto ciò che di concreto e solido ci appare. Come ad esempio il gatto morto ai bordi della strada che Annetta vede dissolversi di giorno in giorno, fino a diventare quasi trasparente. Come si dissolve la stessa madre nella penombra in cui si ritira, luogo dove la mancanza di felicità può essere tenuta a bada, lontano da occhi famelici: quelli del paese, per primi, che si accaniscono sulla bella e altera Sofia. Lei che quando pare aver trovato un amore, dopo la morte del marito, si ritrova un beffardo personaggio che sparirà con un quadro rubato da casa. Annetta è l’eterna spettatrice e la spasimante di quella vita così lontana, filtrata. Fino quasi a voler non solo essere amatissima ma a sostituirsi alla madre. Un percorso che nel romanzo di Verde non cade mai nella piccola psicologia, non si tratta di un complesso di Medea ribaltato, ma di un atto d’amore puro, con la sua durezza, a suggerire che l’amore tra figli e genitori passa anche da una grande diversità e, appunto, lontananza che getta però una luce tenera sugli esseri umani che ci hanno generato, così imperfetti, così fuori dagli schemi, generatori di domande eternamente inevase. Stelle che compiono il loro arco nel cielo buio.•.

Daniela Andreis

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