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«La parola delle donne» e la violenza sommersa

No alla violenza   di genere, in una foto simbolica
No alla violenza di genere, in una foto simbolica
No alla violenza   di genere, in una foto simbolica
No alla violenza di genere, in una foto simbolica

Il passaggio chiave nell’emersione della violenza di genere è la riduzione sostanziale del fenomeno della vittimizzazione secondaria. Non è un caso quindi che - dopo i recenti esiti della relazione della Commissione parlamentate di inchiesta sul femminicidio dedicata sull’argomento - il convegno nazionale organizzato a Verona da «Dire» Donne in Rete contro la violenza con il supporto del centro antiviolenza scaligero Telefono Rosa, abbia scelto per tema «La parola delle donne. Vittimizzazione secondaria, criticità e buone pratiche». Il convegno della rete dei centri antiviolenza è stato ospitato nel piccolo Teatro di Giulietta e durante un’intera giornata ha analizzato attraverso una pièce teatrale della compagnia Masc e con tre tavole rotonde e un’indagine il grado di adesione dell’Italia all’articolo 18 della Convenzione di Istanbul, che impegna gli Stati firmatari ad «evitare la vittimizzazione secondaria» che consiste nel far rivivere le condizioni di sofferenza a cui è stata sottoposta la vittima di un reato, ed è spesso riconducibile alle procedure delle istituzioni susseguenti a una denuncia o all’apertura di un procedimento. Sia esso penale, civile, amministrativo. Nadia Somma, consigliera di Dire, ha presentato un’indagine qualitativa svolta raccogliendo un questionario tra le operatrici di accoglienza di 35 centri antiviolenza nazionali che hanno preso in considerazione 5.740 donne da loro seguite. Di queste, solo 1.568 hanno avviato un percorso con la giustizia. Dato indice del livello di sommersione del fenomeno della violenza di genere. «Le donne non si fidano delle istituzioni», è la considerazione; il livello di vittimizzazione istituzionale percepita rimane alto, oltre il 70%, dall’inizio del procedimento alle sue conclusioni. A frenare l’emersione i pregiudizi sessisti con cui le testimonianze vengono soppesate; la frequente confusione tra conflitto e violenza; la diffidenza e la colpevolizzazione delle vittime, se si parte dal presupposto che «Sta raccontando questo per ottenere vantaggi nella separazione». «Grande assente dai tribunali», ha sottolineato Somma, «è pure la valutazione del rischio». In sostanza - come ricordato da Lorena Pais operatrice d’accoglienza - l’unico spazio in cui la violenza subita viene raccontata in un ambiente accogliente e non giudicante è quello del centro antiviolenza. Dopo la raccolta della denuncia, le procedure non distinguono, ad esempio per l’affidamento dei minori, tra le dinamiche proprie di una coppia che decide di separarsi e quelle di una donna che si separa dopo aver subito violenza dal coniuge maltrattante, i cui figli a loro volta hanno subito violenza assistita, nel nome di un rispetto dogmatico della bigenitorialità. «Serve molta formazione, anche dei consulenti tecnici d’ufficio, che devono saper riconoscere la violenza, la paura dei minori nei confronti del padre maltrattante, il racconto spezzato di chi è in condizioni di stress post traumatico», ha detto la psicologa Luisanna Porcu. Nella sezione dedicata alla parola delle donne nei tribunali, sul lavoro da fare è intervenuto il presidente della sezione famiglia del Trinunale di Napoli, Raffaele Sdino. «La riforma Cartabia che entrerà in vigore il primo luglio», ha sottolineato, «dà più potere d’azione al giudice civile che non deve più aspettare il penale». Spazio importante: «L’ascolto. Raccontare i dettagli è utile, nominare la violenza». Come a volte la «prova» si trova già nelle parole del maltrattante, ha ricordato l’avvocata civilista Manuela Ulivi. Tutti concordi, compresa la vicesindaca di Verona Barbara Bissoli intervenuta a portare i saluti della città, sulla necessità di trovare un linguaggio comune e protocolli che coinvolgano Ulss, tribunale, procura, servizi sociali, operatori e operatrici tutte, in una formazione specifica sulla violenza di genere. Perché anche piccoli accorgimenti, un paravento durante un’udienza o il giusto tempo dedicato all’ascolto diretto della donna, possono fare la differenza.•.

Francesca Mazzola

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