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L’ULTIMO CANTO DEI BAMBINI DI VO’

La copertina del libro. A destra i tre fratellini Foà e in basso 
Vo’ Vecchio con villa Contarini
La copertina del libro. A destra i tre fratellini Foà e in basso Vo’ Vecchio con villa Contarini
La copertina del libro. A destra i tre fratellini Foà e in basso 
Vo’ Vecchio con villa Contarini
La copertina del libro. A destra i tre fratellini Foà e in basso Vo’ Vecchio con villa Contarini

Chi percorre in bicicletta i colli berici ed euganei fa di certo tappa nella bella villa Contarini Giovanelli Venier, sorta sotto i fasti del patriziato della Serenissima nel cuore di Vo’ Vecchio. Oggi noto come primo focolaio della pandemia in Veneto, il paese fu in passato anche il luogo più significativo della Shoah padovana, quando sulla villa passò l’ala scura del nazifascismo: tra il dicembre del 1943 e il luglio del ’44, l’edificio divenne il primo luogo di concentramento degli ebrei patavini. Riapre questo capitolo, raccontandolo con gli occhi di una decina di bimbi lì giunti, l’agile volumetto di Francesco Selmin «Il capretto e l’angelo della morte. Il canto dei bambini da Vo’ ad Auschwitz», edito da Cierre Edizioni. Selmin riprende uno studio fatto trent’anni fa sulla realtà concentrazionaria padovana, innescata dall’ordinanza ministeriale del 30 novembre 1943 che fece di villa Contarini il primo luogo in cui concentrare gli ebrei, di Padova in questo caso, e uno dei gangli del sistema di concentramento della Rsi che passò anche per la casermetta di Colombare a Montorio, a Verona: le strutture radunavano gli ebrei che sarebbero stati inviati ad Auschwitz. Nel dicembre del 1943, dunque, tra la villa - requisita al proprietario Sirio Landini e in cui le suore elisabettine di Padova avevano trovato un riparo - e il cortile sul retro attiguo alla parrocchia di don Giuseppe Rasia, vivono i loro ultimi mesi di vita diverse famiglie ebree con una parvenza di normalità, seppur tra privazioni e divieti che affamano i loro bambini, spogliati di diritti, case e ricordi. Alla spicciolata, arrivano una decina di piccoli, tra i 6 e gli 11 anni. Sono loro a incantare don Giuseppe con il Chad Gadya, «Il capretto», la canzone filastrocca intonata dopo la cena di Pasqua e che oggi conosciamo nella versione, modificata, di Angelo Branduardi, «Alla fiera dell’Est». La filastrocca racconta la storia degli ebrei costellata di drammi che si conclude infondendo speranza, perché la spirale di odio si spezza con l’intervento di Dio. La spirale di odio, però, spegnerà quegli ultimi otto mesi vissuti all’ombra di villa Contarini. I bambini di Vo’ moriranno tutti poco dopo aver messo i piedi sul marciapiedi del binario di Auschwitz: sono i quattro fratellini torinesi sfollati nel Padovano e orfani di padre, Pasqua, Anselmo, Ercole e Ida Jachia; i tre Foà, Giorgio, Giancarlo e Vittorio, di Como ma che risultano residenti a Padova; e poi Pietro ed Eva Kapper, sloveni rifugiatisi nell’Agordino. Infine, la piccola Sara Gesess, 6 anni, la prima a entrare a villa Contarini e l’ultima a lasciarla: nascostasi il giorno dell’evacuazione del campo, viene trovata e consegnata ai tedeschi il giorno dopo. Quegli otto mesi, nella villa, requisita dalla polizia fascista, sono regolati da ordini e divieti imposti dal comandante del campo, il commissario locale di pubblica sicurezza, uomo «rigido e duro», lo definisce don Giuseppe, e che contribuisce a soffocare la vivacità del luogo animata dalle grida e dai giochi di quei bambini, smunti e denutriti. È la storia dei tanti microcampi di concentramento locali, a lungo sconosciuta, invisibile nel momento del suo svolgersi, ma anche dopo. Lo studio di Selmin, inaugurato anni fa con «Nessun giusto per Eva. La Shoah a Padova e nel Padovano» (Cierre), ne ha ripreso la memoria, cristallizzata poi con il restauro della villa del 2012 dal quale sono emersi alcuni disegni murali dell’epoca. Ma parlano di quei giorni anche i molti documenti d’archivio, come la relazione del parroco, e altri di fonti ufficiali in mostra oggi nel piccolo museo allestito nella villa. Tra quelle carte si riapre la finestra su Vo’, fino al fatale 17 luglio 1944, quando il silenzio del primo pomeriggio è interrotto dalle grida disperate nel cortile della villa. Don Giuseppe si sveglia dal riposo. I militari tedeschi stanno svuotando il campo. I visetti pallidi dei bambini in fila sarà l’ultima immagine che avrà di quei piccoli destinati con le loro famiglie prima alla Risiera di San Sabba dove resteranno una decina di giorni, fino alla notte del 31 luglio, quando dalla stazione di Trieste il convoglio 33T li porterà alla meta fatale. •

Maria Vittoria Adami

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