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L’ULTIMA BATTAGLIA

Soldati in trincea prima di un assalto: il trionfo di Vittorio Veneto è una pagina fulgida della storia italiana
Soldati in trincea prima di un assalto: il trionfo di Vittorio Veneto è una pagina fulgida della storia italiana
Soldati in trincea prima di un assalto: il trionfo di Vittorio Veneto è una pagina fulgida della storia italiana
Soldati in trincea prima di un assalto: il trionfo di Vittorio Veneto è una pagina fulgida della storia italiana

Speculare alla leggenda nera che ha mutato Caporetto in archetipo di ignominiosa disfatta dimenticando che a inchiodare nel giro di poche settimane gli austro-tedeschi sul Piave e sul Grappa era stato lo stesso esercito battuto sull’Isonzo, c’è quella che vorrebbe ridurre Vittorio Veneto a poco più di una passeggiata militare sulle orme del nemico ormai in ritirata. L’ultima battaglia combattuta dagli italiani nella Grande Guerra fu naturalmente ben altro, e se solo per un istante ci si sottraesse allo sport nazionale dell’esaltare le sconfitte sminuendo le vittorie, le pagine scritte dai soldati in grigioverde durante l’offensiva che tra il 24 ottobre e il 4 novembre del 1918 portò al collasso dello schieramento austriaco e alla vittoria definitiva delle nostre armi ci apparirebbero in tutta la loro grandezza. L’azione, inizialmente prevista per la primavera del 1919, era stata anticipata a causa del precipitare di una situazione che, dopo la fallita offensiva tedesca sulla Marna - respinta grazie anche al decisivo intervento del II corpo d’Armata italiano - la rottura del fronte albanese con la resa della Bulgaria e la sconfitta subita dalla Turchia in Palestina, volgeva nettamente a favore dell’Intesa. Le pressioni degli Alleati e del governo Orlando ebbero ragione dei dubbi di Diaz, preoccupato di colmare i vuoti creati dall’epica resistenza alla spallata del «Solstizio», dubbi definitivamente fugati dall’urgenza di avere ragione dell’Austria prima che un armistizio trovasse le sue armate ancora sul nostro territorio. A una pace separata infatti la duplice monarchia, ormai sull’orlo di veder sfaldarsi il cadente mosaico dei suoi popoli, stava pensando da tempo, ma con troppe esitazioni e ambiguità che alla fine costrinsero a decidere la partita scendendo in campo nelle peggiori condizioni e senza poter fare affidamento su alcuni reparti, in primis i reggimenti ungheresi, decisi ormai a combattere solo per difendere i propri confini nazionali. Nonostante questa situazione preagonica, la forza delle armate asburgiche era tutt’altro che compromessa, come dovettero purtroppo constatare i soldati della 4ª Armata italiana, la prima a muovere all’attacco sul monte Grappa il 24 ottobre, anniversario di Caporetto, mentre i reparti destinati a sfondare sul Piave erano bloccati da una violenta piena. Due giorni di sanguinosissimi assalti degni della peggiore tradizione carsica non ebbero ragione del nemico costringendolo però a bloccare ingenti forze in quel settore. Questo favorì le prime unità riuscite a passare il fiume il 26, davanti al Montello, ma restate presto isolate perché la furia del fiume aveva distrutto i ponti appena gettati. Il 28, con una manovra risultata decisiva, il generale Caviglia disponeva che il XVIII corpo d’Armata manovrasse sulla riva sinistra verso settentrione dopo averlo fatto passare più a sud, alle Grave di Papadopoli, dove il corso delle acque era reso meno impetuoso da un reticolo di isolotti e dove la 10ª Armata mista italiana e inglese si era già attestata con successo. Le brigate «Como» e «Bisagno» giungevano così a fornire un provvidenziale soccorso all’avanguardia che resisteva disperatamente a Sernaglia consentendo un nuovo gittamento dei ponti e il passaggio al grosso dell’8ª Armata. Con l’entrata in Vittorio Veneto della cavalleria inquadrata nell’VIII corpo d’Armata e con il passaggio del Livenza operato dalla 10ª Armata tutto il fronte si metteva in moto. Forzata la stretta di Quero e presa Feltre aprendosi la via del Cadore, la 12ª Armata italo-francese provocava l’aggiramento del Grappa abbandonato dagli Austriaci il 31 ottobre mentre in pianura, dove la 3ª Armata guadagnava terreno, si giungeva al Tagliamento. Nei giorni successivi l’avanzata della 6ª sugli altipiani e della 1ª in Val d’Adige portava al definitivo tracollo dello schieramento austriaco. Il 3 novembre gli italiani entravano a Trento e Trieste accolti da una folla in delirio. La manovra di inseguimento con cavalleggeri, ciclisti e autoblindo, supportati dall’aeronautica che mitragliava e bombardava il nemico in fuga è stata paragonata per efficacia allo sfondamento operato dai tedeschi in Francia nel 1940; un giudizio surrogato da oltre 400mila prigionieri (il numero delle perdite austriache non sarà mai determinato con precisione) e dall’enorme quantità di materiali abbandonata dal nemico in fuga. 34.080 uomini, tra morti, feriti e dispersi, due terzi dei quali solo nella 4ª Armata, stavano fisicamente a testimoniare il prezzo pagato dagli italiani e dai loro alleati (2.418 le perdite subite da inglesi e francesi) in quell’ultima vittoriosa battaglia e la forza d’animo che, tornando ancora una volta all’assalto, avevano saputo mostrare ad appena un anno da Caporetto. L’icona di questa riscossa sono i «Ragazzi» della classe 1899 affiancati dai primi tra quelli del 1900 ad entrare in linea, ed è proprio nel segno di uno di loro che si chiudeva l’ultimo giorno della nostra guerra. Il 4 novembre, a pochi minuti dall’entrata in vigore dell’armistizio, sul bivio di Paradiso, a est del Tagliamento, gli Arditi dell’8° reggimento Bersaglieri con i Cavalleggeri di Aquila si lanciavano in un disperato attacco contro le retroguardie nemiche. A guidarli, sfidando un violentissimo fuoco di mitragliatrici e restando ucciso da un colpo in fronte, era il 18enne sottotenente Alberto Riva di Villasanta, veterano del Grappa e del Piave decorato con l’argento, ultimo caduto della Grande Guerra, medaglia d’oro alla memoria. Nell’olocausto di quel giovane eroe immolatosi «per spingere la vittoria più lontano» (D’Annunzio) si incarnavano i sacrifici di tre anni e mezzo di guerra e il prezzo pagato per vincerla: 651mila morti, 947mila feriti e 600mila tra dispersi e prigionieri. Nessuno seppe purtroppo mettere a frutto quel patrimonio di sangue e di sofferenze per edificare una nuova Italia, più giusta e più libera, che rappresentasse il compimento, non solo territoriale, degli ideali risorgimentali. Dopo aver vinto la guerra ci si avviava così a perdere la pace spalancando le porte, di lì a qualche anno, alle tenebre della dittatura. •

Stefano Biguzzi

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