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Il libro Neri Pozza sull’episodio del 1944

L’assalto agli Scalzi. E Verona fu medaglia d'oro. De Bosio: «Io c'ero»

Il carcere degli Scalzi prima della demolizione
Il carcere degli Scalzi prima della demolizione
Il carcere degli Scalzi prima della demolizione
Il carcere degli Scalzi prima della demolizione

Giugno 1944, Verona è capitale della Repubblica Sociale Italiana, sede di comandi militari e alcuni ministeri, nell’attuale palazzo Ina di corso Porta Nuova c’è il quartier generale delle SS. «Verona era ormai una città svuotata. Chi poteva se ne andava conscio dei pericoli. Non c’erano più autobus per mancanza di pneumatici e lubrificanti, i tram erano guidati dalle donne, ma difficilmente riuscivano a compiere un intero tragitto, poiché mancava anche la corrente elettrica. Piazza delle Erbe era uno spettacolo desolante i banchi di frutta e verdura erano spariti, al loro posto restava solo un vuoto disarmante. Al contrario, le caserme abbondavano di anziani richiamati alle armi. I nazisti erano ormai i padroni incontrastati della città».

 

IL TERZO CLN. In questo clima di terrore e di orrore, un giovane Gianfranco De Bosio, veronese ma studente all’università di Padova, riceve proprio dai professori padovani, l’incarico di ricostituire il terzo Comitato di Liberazione Nazionale, in totale clandestinità, dopo che il secondo, che si muoveva con poche precauzioni, era stato spazzato via dai tedeschi con arresti e deportazioni. E in quel ruolo De Bosio è un osservatore privilegiato del clamoroso e valoroso assalto al carcere degli Scalzi per la liberazione di Giovanni Roveda, sindacalista, antifascista e dirigente del partito comunista nazionale, un assalto portato il 17 luglio 1944 da un gruppo di coraggiosi gappisti che è valso a Verona la medaglia d’oro al valor militare il 5 ottobre 1993. Gianfranco De Bosio, classe 1924, regista di cinema e di teatro, già sovrintendente dell’Ente lirico, sceneggiatore, lavoratore instancabile, all’alba dei suoi 97 anni ha dato alle stampe per la casa editrice Neri Pozza il libro «Fuga dal carcere», in libreria da giovedì 25 febbraio dove per la prima volta non solo racconta nelle pieghe più drammatiche e più umane l’assalto al carcere degli Scalzi, ma anche una Verona ferita e prostrata dalla guerra, dove i nazisti sono ovunque ma nonostante questo ci sono ancora tanti veronesi che fanno resistenza civile, aiutano la clandestinità, rischiano la pelle, danno ospitalità, non fanno domande. Figlio di un avvocato, Gianfranco De Bosio si avvicina alle formazioni partigiane a Padova dove studia e compie le prime azioni dimostrative, poi ottiene l’incarico di tornare nella sua Verona per dar vita al Comitato di Liberazione Nazionale che era formato a livello nazionale «da Democrazia del Lavoro, Partito d’Azione, Partito Comunista, Partito Liberale, Partito Popolare, Partito Socialista. Ma a Verona la Democrazia del Lavoro non esisteva e la Democrazia Cristiana era osteggiata proprio dal Vescovado».

 

CLANDESTINITÀ. De Bosio scrive: «A Verona avevo diverse abitazioni. Era una condizione obbligatoria, considerata la natura clandestina del mio soggiorno». Con uno dei suoi nomi falsi si fa ospitare da una sarta vicino al Teatro Romano, mentre con un altro trova alloggio in un piccolo appartamento di via Marconi, proprio di fronte al carcere degli Scalzi. «Il padrone di casa, Carlo Forcato, era un piccolo industriale del rame e sapevo che avrebbe tenuto la bocca chiusa, se pure avesse intuito le mie attività». Attività non semplici, dice De Bosio che deve rappresentare la Dc nel Cln: «Non mi sentivo affatto in grado di rappresentare un partito cattolico». Ma questo c’era da fare ed entra in contatto con Vittorio Zorzi per il Partito d’Azione, «di famiglia antifascista. Era un uomo davvero prudentissimo: teneva l’archivio delle riunioni e non uscì mai di casa, provvedeva a tutto la sua compagna». Sono tanti i nomi e le persone di valore che De Bosio incontra, tra tutti il colonnello Giovanni Fincato, responsabile militare del Cln. «Conoscerlo fu per me un onore e un privilegio» scrive De Bosio. Fincato morirà poi per le torture nelle carceri vicino al Teatro Romano, senza mai fare i nomi dei suoi compagni.

 

LA LIBERAZIONE DI ROVEDA. La liberazione di Giovanni Roveda, sindacalista antifascista comunista, da 18 anni sottoposto a confino e carcere a Ventotene, al Regina Coeli e a Padova era voluta fortemente dal partito comunista nazionale, perché si temeva che sarebbe stato presto fucilato e così da Milano arrivano organizzatori come Aldo Petacchi per comandare e formare la squadra che avrebbe liberato il prigioniero. «Si era deciso di avere una base a Verona e l’altra a Padova: la squadra di Verona avrebbe compiuto l’azione, quella di Padova avrebbe creato il diversivo. I cinque gappisti che erano stati scelti per la squadra di Verona erano uomini coraggiosi e scaltri, gente di “fegato”. Si trattava -ricorda De Bosio- , di cinque ufficiali dell’esercito: Berto Zampieri, Emilio Moretto Bernardinelli, Lorenzo Fava, Danilo Preto, Vittorio Ugolini. Facevano tutti parte dei gap veronesi, i Gruppi di Azione Patriottica». La dinamica dell’assalto è nota e De Bosio assiste dalla finestra dell’appartamento di via Marconi, ospite di Carlo Forcato: «Era stato con ansia e trepidazione che avo visto l’auto con a bordo i gappisti (una Lancia Artena sulla quale vi erano Danilo Preto, Aldo Petacchi e Berto Zampieri, alla guida Emilio Moretto Bernardinelli-ndr) fermarsi davanti all’ingresso del carcere e gli stessi scendere armati e pronti all’assalto. Poi eccoli riapparire dopo alcuni minuti, portando Roveda con loro. L’auto era pronta a ripartire quando era iniziata la sparatoria. Volavano colpi da tutte le parti, una pioggia di proiettili si era abbattuta sui gappisti e sull’auto», l’auto si spegne ma con grossi sforzi riescono a farla ripartire e a fuggire. Esulta anche l’industriale Carlo Forcato.

 

«L’industriale, appresi in seguito, aveva collaborato in maniera significativa alla fuga di Roveda. Egli infatti teneva costanti e amichevoli rapporti con i secondini del carcere» ed era riuscito ad avere informazioni utili per il piano di fuga. «Del resto tra i secondini il fascismo repubblichino non aveva mai ottenuto sensibili adesioni». Danilo Preto e Lorenzo Fava sono feriti gravemente. Moretto Bernardinelli li lascia in auto per cercare soccorsi, nella zona di Porto San Pancrazio, ma la polizia fascista trova l’auto e la fa sparire. Preto muore poche ore dopo, Fava viene fatto prigioniero, le SS dicono ai genitori che è ricoverato in ospedale, il suo corpo verrà riconosciuto undici mesi dopo. Era stato fucilato, aveva 25 anni. Preto e Fava sono medaglie d’oro al valor militare. Roveda viene nascosto in abitazioni private, scampa ai fascisti e alla morte con Berto Zampieri, Aldo Petacchi e Vittorio Ugolini. Roveda arrivò a Milano con un viaggio di fortuna e da qui a Torino dove il Cln lo nomina sindaco della città liberata fino al 1946 quando viene eletto deputato alla Costituente.

 

I PONTI. De Bosio conclude ricordando l’ingresso delle truppe australiane a Verona il 26 aprile e conferma un retroscena sulla distruzione dei ponti da parte dei tedeschi. «Il vescovo aveva stretto un accordo con il comando tedesco che si sarebbe impegnato a non far saltare i ponti sull’Adige, già tutti minati, se i partigiani non avessero attaccato le truppe in ritirata. Il vescovo acconsenti e ci comunico l’impegno preso». De Bosio era capo della Resistenza. «Accettammo anche perché non avevamo le armi per attaccare i tedeschi stanziati attorno ai ponti. Tuttavia, anche questa è Storia, l’impegno non fu mantenuto e il 24 aprile 1945, al tramonto, i tedeschi in ritirata fecero saltare in aria tutti i ponti sull’Adige. Un’umiliazione non solo per il Cln ma per tutta la città».

 

PARTIGIANI DELL’ULTIMA ORA. De Bosio rivede anche alcune decisioni che oggi considera errori. «Mi opposi alle esecuzioni sommarie, dicevo “Niente esecuzioni sommarie. Dobbiamo riferirci alla legge. Non fuciliamo i criminali fascisti senza processo“. E forse commisi un errore, dal momento che poi, grazie anche all’amnistia, i fascisti se la cavarono in troppi, chi riciclandosi, chi scappando in Argentina». La guerra è finita e tanti sono veloci a saltare sul carro del vincitore. «Il 5 maggio furono convocati in Arena tutti i partigiani del Veronese -scrive de Bosio - per la consegna delle armi alle nuove autorità. Si presentò una folla esultante con le più strampalate divise e armi di ogni sorta. Ma nei mesi vissuti in clandestinità, nel costante pericolo di essere arrestati, torturati, uccisi, a combattere per la libertà eravamo una manciata di uomini, una minoranza malvista dai più. Poi, all’improvviso, appena finita la guerra, in Arena c’erano diecimila persone. Noi pochi veri combattenti per la libertà restammo a bocca aperta, increduli: troppi erano divenuti partigiani entusiasti all’ultimo momento. Preferii allontanarmi, disgustato (...) l’opportunismo vigliacco stravinceva. Quella fu per me una lezione bruciante: da allora la politica non mi ha più attratto e preferii lasciarla per seguire la mia vera vocazione: il teatro». E in quell’Arena De Bosio sarebbe tornato centinaia di volte da protagonista di spettacoli indimenticabili. •

Maurizio Battista

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