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L'intervista/2

Giacobazzi: «L'algoritmo sarà sempre più bravo. Ma solo lo spirito critico può creare grandi rivoluzioni»

Il prorettore dell’Università di Verona spiega rischi e vantaggi dell'intelligenza artificiale: «L’algoritmo è l’espressione dell’omologazione: la macchina non si può battere sulla vastità del sapere ma sulla capacità di scovare un'interpretazione originale»
l professor Roberto Giacobazzi docente di Informatica e prorettore dell’Università di Verona
l professor Roberto Giacobazzi docente di Informatica e prorettore dell’Università di Verona
l professor Roberto Giacobazzi docente di Informatica e prorettore dell’Università di Verona
l professor Roberto Giacobazzi docente di Informatica e prorettore dell’Università di Verona

«L’intelligenza artificiale crea una società omologata. Uniforme. Caratterizzata dal pensiero unico. È invece lo spirito critico che fa la differenza. Ed è questa la grande sfida che permetterà all’uomo di differenziarsi della macchina». Roberto Giacobazzi, docente di Informatica e prorettore dell’università di Verona, fa l’esempio dell’arte: ogni grande movimento è nato da una rottura. Quindi da una rivoluzione rispetto al passato. Ecco, è questo che gli algoritmi non potranno mai fare. Nonostante i progressi degli ultimissimi tempi».

Fino a poco tempo fa era materia per informatici e «smanettoni». Oggi è alla portata di tutti: e chi non l’ha provata ne ha sicuramente sentito parlare. Questo perché l’intelligenza artificiale è uscita dalle mura di studiosi e analisti grazie alla sua capacità di svolgere, oggi, compiti sorprendenti, come creare immagini e testi, predire il verificarsi di una malattia, comprendere il linguaggio umano e le sue emozioni.

Da Character a ChatGpt

Da Character.ai, che permette di conversare in maniera verosimile con personaggi noti, vivi o del passato, a ChatGpt, il sistema delle chatbot, ovvero conversazioni tra umani e sistemi di intelligenza artificiale, capace di rispondere a domande e fornire informazioni. C’è chi si è affidato alla piattaforma per scrivere canzoni, chi ha chiesto di produrre un romanzo o un articolo di giornale. Ci sono studenti – soprattutto negli Usa – che lo usano per fare i compiti. Ha enormi potenzialità. Ma ha anche tanti rischi.

Professore, come siamo arrivati a questo livello di «intelligenza»?

Fa parte di un’evoluzione tecnologica e scientifica frutto di ricerche avvenute negli anni: questa tecnologia, già in grado di vedere e interpretare segnali, capire gli oggetti e muoverli nello spazio, ora sa articolare frasi, costruire pensieri. Ma nel frattempo è cambiato anche il significato che si dà all’intelligenza artificiale. Dalle macchine logiche siamo arrivati a macchine caratterizzate da algoritmi sofisticati che danno l’impressione di essere intelligenti.

Che è l’impressione che dà anche ChatGpt.

Sono aggregatori di conoscenza che attingono dalla rete, quindi a una banca dati ben più ampia ed estesa rispetto a quella a disposizione dell’essere umano. Ecco perché il piano di competizione tra l’uomo e la macchina non potrà mai essere quello della vastità del sapere.

Soccomberemo alle macchine?

No. Vede, la differenza tra noi e la macchina sta in questo esperimento: se mostri a una macchina tutte le opere di fine Ottocento e le chiederai di disegnare un quadro, lei te ne farà uno in quello stile perché funziona secondo un procedimento induttivo. Cioè vede una sequenza di dati e ne estrapola uno nuovo ma in continuità con gli altri. C’è, insomma, una uniformità di base. La macchina non genererà mai il Cubismo. Solamente l’uomo può creare grandi rivoluzioni, momenti di rottura. Ecco perché la sfida non sta nel competere sul piano della quantità della conoscenza ma sulla capacità di costruire qualcosa di nuovo e di diverso rispetto all’esistente.

Il rischio non è affidarsi troppo o esclusivamente a queste macchine, in grado di sostituirci in molte attività?

Il rischio c’è soprattutto in società incastrate in regole e sistemi che la macchina sa far funzionare meglio di noi. Questo perché l’algoritmo è l’espressione massima dell’omologazione, e una società omologata è «comoda»: più la rendi protocolizzata e la definisci in modo procedurale, più ti «frega» perché lui, l’algoritmo, sarà sempre più bravo. È invece lo spirito critico che fa la differenza.

Perché è così importante?

Vede, gli algoritmi sono aggregatori di conoscenza che diventeranno la nostra interfaccia con il sapere: ma un unico algoritmo o pochi algoritmi che trasmettono conoscenza comportano il pensiero unico e rischiano di orientare il mondo. Per questo serve un apparato critico per coltivare il dubbio, per andare oltre, per rompere gli schemi.

Bisognerebbe partire dalle scuole le quali, invece, cercano di tenere ben lontana l’intelligenza artificiale.

A scuola il tema lo farà sempre meglio la macchina. È però necessario che le tecnologie entrino nel processo formativo, è impensabile che ne restino fuori. Ma va cambiato il sistema di valutazione, che non dovrà privilegiare la quantità di conoscenze con le loro correlazioni perché su questo piano, come abbiamo detto, la macchina vincerà sempre. Va premiata la capacità critica, di andare oltre, di scovare un’interpretazione originale.

Solo così potremo fare la differenza.

Solo coltivando le differenze più che l’omologazione. Le attività mediocri si confonderanno se fatte dall’uomo o dalla macchina. In quelle originali si vedrà il divario.

Francesca Lorandi

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