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IL TOTALITARISMO DEL VENTENNIO

Benito Mussolini con i volontari del nuovo esercito italiano nel luglio 1944
Benito Mussolini con i volontari del nuovo esercito italiano nel luglio 1944
Benito Mussolini con i volontari del nuovo esercito italiano nel luglio 1944
Benito Mussolini con i volontari del nuovo esercito italiano nel luglio 1944

Il centenario della marcia su Roma non avrebbe potuto avere miglior compimento dell’ultimo lavoro firmato da Emilio Gentile, ennesima zampata di un grande maestro che sa unire originalità interpretativa, densità concettuale e dettagliatissima padronanza di colossali fonti a straordinaria levità e chiarezza narrativa in un connubio che è il sigillo, sempre più raro, dei veri fuoriclasse (Storia del fascismo, Laterza, pp. 1.350, 38 euro). Lo stacco tra la mole del volume e il fatto che, aprendo una qualsiasi delle sue pagine, venga voglia di andare avanti come in un romanzo giallo deriva non solo da uno stile di scrittura particolarmente accattivante ma anche dal fatto che Gentile parla solo apparentemente di cose note; o meglio, le cose note venute emergendo in un secolo di ragionare e scrivere sul fascismo, viste con il suo occhio acquistano tutta un’altra dimensione, si intersecano e concatenano illuminando scorci, dettagli e tagli prospettici che spesso si ignorano o si dimenticano. Se a questo poi si aggiunge il dichiarato intento di guardare al ventennio dall’interno e in contemporanea, quasi con l’occhio del reporter, fuggendo l’immarcescibile tentazione del «senno di poi», gli ingredienti per un’opera che lascerà il segno ci sono tutti. Tra i tanti elementi di spicco il più rilevante è sicuramente l’articolata e definitiva qualifica del fascismo come totalitarismo, con buona pace di chi, appigliandosi a rigidi schemi interpretativi, insiste a negare per il ventennio l’evidenza di questo concetto usato per la prima volta nel 1925 da un noto esponente del fronte antifascista, l’intellettuale marxista Lelio Basso, descrivendo una situazione in cui: «tutti gli organi statuali» erano diventati «strumenti di un solo partito, che si fa interprete dell’unanime volere, del totalitarismo indistinto». La vicenda del fascismo, nel suo evolversi da antipartito, a partito milizia, a regime, fino a diventare tutt’uno con lo Stato e la nazione si dipana seguendo tra successi e fallimenti (uno tra i tanti quello del corporativismo come risposta alla drammatica crisi economica degli anni ’30) il doppio binario della violenza squadrista e della rivoluzione in doppiopetto, la crescita numerica dei ceti medi e il loro desiderio d’ordine nel caos del primo dopoguerra, le cantonate degli osservatori stranieri («Qui stiamo assistendo a una bella rivoluzione di giovani. Nessun pericolo. È ricca di colore e di entusiasmo» scriveva nel 1922 l’ambasciatore americano), la fascistizzazione di società e istituzioni, la costruzione del consenso, la nascita della dimensione imperiale attinta dalle visioni di Alfredo Oriani, ma anche l’intreccio di molteplici dialettiche: sia quelle interne (duce, segretari del Partito nazionale fascista, base, «ras», gerarchi) che quelle legate alla scomoda convivenza con monarchia e Vaticano. E proprio quella dei continui scontri con la Chiesa (le «acerbe afflizioni» di Pio XI) è una delle tracce narrative più interessanti per l’abilità con cui Gentile ricostruisce lo scontro al calor bianco che, dietro allo schermo utilitaristico dei Patti lateranensi, si generò intorno al progetto totalitario di costruzione dell’uomo nuovo fascista e al suo porsi in tutto e per tutto come una vera e propria religione alternativa. Naturalmente non è possibile parlare di fascismo senza parlare di Mussolini, e l’intrigante, speculare contrappunto con la biografia del duce è un altro punto di forza di questo volume che tra cinismo, velleitarismo, istrionico fiuto di «artista della politica», mito del capo, dialettica mussolinismo/fascismo e tanto altro ancora, segue la parabola di un capo deciso a tutto e al contrario di tutto pur di imboccare la strada per il potere assoluto. Una parabola tragicamente intuita e descritta nel 1914 da un suo ex compagno di partito, il socialista Claudio Treves: «(Nella rivoluzione vagheggiata da Mussolini) la folla ha il solito eterno ‘ruolo’ di coro, e proprio di un coro che è gregge tirato al macello» credendo che l’anima e la volontà delle masse organizzate si incarni e manifesti «nella coscienza dell’eroe, del santo, del duce». Bellissime infine, anche come esercizio di stile e di sintesi, le poche pagine dedicate ai seicento giorni di Salò e al truce miraggio di un fascismo ancor più totalitario accarezzato da un Mussolini che, pur descrivendosi come «sognatore naufragato» e «fantoccio grottesco», non si esimeva dall’estrema viltà di imputare il fallimento della sua nera creatura solo ed esclusivamente agli amati compatrioti indegni di cotanta grandezza: «Non è il fascismo che ha guastato gli italiani, ma sono gli italiani che hanno guastato il fascismo». Giunti al termine di queste mille e passa pagine una domanda sorge spontanea: quanti tra i nostalgici che più o meno dichiaratamente lo rimpiangono, o tra chi invece richiama la necessità di tenere alta la guardia contro una minaccia sempre pronta a ripresentarsi sanno cos’è stato veramente il fascismo? Pochini. Per tutti sarebbe opportuno avventurarsi in questo monumentale libro di Emilio Gentile che, insieme a tanti altri, dovrebbe entrare in un ideale dispensario farmaceutico come medicina per la malattia del parlare di cose che si conoscono poco e male. Una patologia sempre più diffusa e che, come motto per la campagna di profilassi potrebbe avere il foscoliano, «O italiani, io vi esorto alle storie».•.

Stefano Biguzzi

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