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IL NUOVO TESORO DELLA CAPITOLARE

Il manoscritto sottoposto alle analisi multispettrali con una fotocamera da 150 megapixel
Il manoscritto sottoposto alle analisi multispettrali con una fotocamera da 150 megapixel
Il manoscritto sottoposto alle analisi multispettrali con una fotocamera da 150 megapixel
Il manoscritto sottoposto alle analisi multispettrali con una fotocamera da 150 megapixel

La più antica traccia ad oggi conosciuta del commento di Apuleio al famoso trattato di Platone «La Repubblica» si trova in riva all’Adige. E più precisamente, tra le righe di un manoscritto custodito nella nostra Biblioteca Capitolare. L’eccezionale scoperta, avvenuta appena 48 ore fa ad opera di un team di ricercatori di fama internazionale provenienti dalle università di Rochester, Oxford, Sorbona, Treviri e Monaco, grazie a tecnologie super avanzate, segna così un nuovo straordinario primato per quella che - in virtù della presenza del Codice Ursicino, che ne attesta l’operosità fin dal VI secolo - è ormai consacrata come la biblioteca più antica al mondo tra quelle attualmente ancora attive. Non solo, a rivestire di nuovo splendore il tempio della conoscenza e delle cultura incastonato nel complesso del Duomo, «è anche l’ondata di rinnovato e crescente interesse per i nostri millenari tesori, che giunge da eccellenze universitarie di tutto il mondo, e che andando ad accendere questo enorme faro sulla cultura - classica e non - di cui la città scaligera conserva preziosissime testimonianze – sono certo genererà a breve un importante impatto anche oltre i confini locali e nazionali», spiega monsignor Bruno Fasani, Prefetto della Capitolare, entusiasta del lavoro svolto dal team ospite. Il quale, unendo competenze informatiche e conoscenze umanistiche, è riuscito a leggere sotto i testi di alcune pergamene palinseste raccolte nel Codice XL, e riportare alla luce un frammento del V-VI secolo di Apuleio (scrittore vissuto nel secondo secolo d.C. nell’attuale Algeria, allora parte dell’Impero Romano, fra gli altri autore delle celebri «Metamorfosi») contenente un estratto del decimo libro della Repubblica di Platone «del quale finora si conosceva solo la traccia conservata nella Biblioteca Vaticana, datata XIII secolo. Per cui possiamo dire ad gran voce», esulta Fasani, «che la Capitolare di Verona batte la Vaticana di ben otto secoli». Complici, si diceva, la strumentazione tecnologica messa a disposizione dal gruppo di scienziati del Lazarus Project e Emel, protagonisti del progetto, ossia una fotocamera da 150 megapixel con led a luce fredda della MegaVision di Santa Barbara (California). «Con questa sono state catturate 47 immagini per foglio, successivamente sottoposte a indagini multispettrali (infrarosso, ultravioletto) che permettono di scovare ogni segreto nascosto anche tra le pagine più malmesse, tramite grafiche digitali finalizzate a decifrarne il contenuto più nel dettaglio». Strumenti preziosissimi soprattutto per lo studio dei palinsesti, dunque. Pergamene che nei secoli venivano riutilizzate per successive attività di copiatura, andando a cancellare o comunque coprire i manoscritti precedenti. «Una sorta di “restauro digitale”, frutto di un viaggio nel tempo, fino alle tracce della pagina ancora fresca di quell’inchiostro pazientemente steso dall’amanuense», sottolinea il project manager della Fondazione Biblioteca Capitolare Timoty Leonardi. Tecnica per altro già sperimentata dal medesimo team alla Folger Library di Washington, dove è stata riportata alla luce una firma di William Shakespeare e a Vienna, dove è stato recuperato un palinsesto illeggibile in quanto completamente cancellato. Alle operazioni di ricerca presenzia in questi giorni anche il professor Filippo Briguglio, dell’Università Alma Mater Studiorum di Bologna, che proprio grazie ai suoi studi in Capitolare ha fatto conoscere all’ambiente accademico le Istituzioni di Gaio. Ricerche analoghe saranno presto condotte anche sul celebre Indovinello veronese, sull’Evangelarium Purpureo e su pergamene gravemente danneggiate nel corso dell’alluvione che colpi a città nel 1882. Una scoperta utile anche a meglio ricostruire la stessa opera attribuita ad Apuleio, pubblicata per la prima volta un’edizione nel 2016, alla luce della quale, comparando i due manoscritti più antichi oggi noti, è emerso anche che quello conservato in Vaticano presenta una lacuna, «che non escludiamo potrebbe essere colmata proprio grazie allo studio del manoscritto veronese».•.

Francesca Saglimbeni

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