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20 anni di storia

La Olga: il filò de L’Arena e il binocolo della veronesità

Può dire tutto: saggezze e ironia

In una civiltà in cui il patrimonio della memoria scarseggia come l'acqua al tempo della siccità, e che andrebbe preservato dalle secche dell'arido disincanto per editto comunale, o con un'ordinanza di sano civismo, ritrovarsi dopo vent'anni tondi intorno alla risorgiva della Olga non è un atto celebrativo. Non lo è perché da quel 26 luglio del 2002 in cui Silvino Gonzato l'ha inventata nel solco di Dino Coltro e Giorgio Gioco, quando ancora L'Arena aveva la vecchia Terza Pagina, l'euro era appena entrato in circolazione e il sindaco era Paolo Zanotto, da allora ogni giorno compreso oggi e domani la fa rinascere, con la sua ironia tagliente come le tre spade di Cangrande, per riaprire gli occhi sul racconto di quella che noi chiamiamo l'identità veronese. Con un binocolo ben piantato davanti.

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Che la Olga, il suo Gino, el bareto e le figure o meglio i caratteri che popolano la «posta» più famosa della città, inforcano con quel modo schietto di chi per secoli è abituato a guardare e sognare da dentro le mura, per volarci sopra. Armato dell’ironia intelligente, alimentata dalla saggezza popolare che sa trasmettere segmenti di cultura onesta, oltre la cieca arroganza del saccente che svilisce il dubbio, dell’arrocco sulle certezze scontate che la Olga dileggia come i cantastorie prendevano in giro i potenti al tempo delle Signorie, o i politici al tempo delle prime, seconde e terze Repubbliche. Per oltre quattromila volte Silvino ha ridipinto vizi ma anche virtù nel tratto fine rateriano del tempo, l’unico che può dare la profondità del senso relativo all’incursione fuori le righe della ruvidezza popolana, Pasquino scaligero che diversamente dalla Roma papalina ha il coraggio e la sfrontatezza della faccia della sua eroina. E in questi vent’anni la Olga, già nata «anzianotta», troneggia dalla sua contea salgariana di Battisole come la Madonna Verona senza corona ma piena di spine. Per graffiare ma anche solleticare, pescando dall’Adige delle storie vere, impastate di umanità. Mutuandole, con gli alambicchi romanzati, trasformandoli nel combinato disposto della fantasia che non inventa nulla ma attinge dalla realtà, confondendo i piani e le superfici da attraversare. Come la fiera affamata di una piazza Pradaval di fine Ottocento che per un artificio alla Orson Welles il cronista de L’Arena diventato il creatore visionario di Sandokan trasformò con un gioco di manifesti e locandine nella tigre della Malesia condannandola ad esistere per sempre. Vent’anni di veronesità raccontati da Silvino non sono un retaggio ma sono una responsabilità. E la sua scrivente commedia dell’arte di quartiere popolata di perle, stilettate e risate, amara consapevolezza, è il filo rosso lungo il quale L’Arena continua ad annodare un filò antico con la sua gente, tra corse e inciampi, tra cuore e altezze, Torre dei Lamberti dell’animo che ha l’umiltà dei piccoli solidi passi, ma ha l'ardore degli occhi azzurri del suo fiume, sfacciati come il giallo insolente del sole sopra le mura, come quel caldo luglio di vent’anni fa.

Massimo Mamoli

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