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I versi e le parole oltre la politica per cambiare tutto

Enrico Santi «Questi versi presentano una freschezza compositiva che è difficile credere non siano stati scritti oggi. Invece si tratta di poesie composte tra il 1960 e il 1965, in un’altra epoca, in un altro secolo». Francesco Marchianò, sociologo toscano, introduce così “Stagioni ritrovate. Con appunti per un poema”, edito dalla casa editrice romana Albatros, raccolta di poesie giovanili del veronese Giorgio Gabanizza. Fu proprio in quegli anni Sessanta che l’autore iniziò la lunga marcia dell’impegno politico, sempre schierato a sinistra. Dapprima nel movimento studentesco, durante gli studi di sociologia a Trento. Anni in cui si credeva, e ci si illudeva, di poter cambiare il mondo. Poi nelle istituzioni: dal Consiglio provinciale a quello di Palazzo Barbieri fino all’approdo nel Consiglio della Regione Veneto, dal 1990 al 2000. In parallelo, la militanza di partito. Iscritto al Psi dal 1957, nel 1964 aderì alla scissione del Psiup. Nel ’72 entrò nel Pci, poi Pds e Ds. Infine il percorso fino a Leu e Sinistra italiana. «Tante sigle, ma è come se fossi sempre rimasto fermo», confessa con un filo di ironia. Gabanizza appartiene a quella generazione, negli anni febbrili del Novecento, che ha vissuto la politica come destino. Tuttavia, già in quei versi dei primi anni Sessanta - testimoni essi stessi di un clima di sperimentazione e di rottura che, afferma lo stesso autore, «metteva in discussione persino regole grammaticali e lessicali, per far prevalere la sostanza e i contenuti alla forma e alla precettistica» - si percepisce un comune denominatore. È il «disincanto», osserva Marchianò. Il senso di inquietudine che si prova «tra le attese promesse, o profetizzate, e la dura realtà dei fatti». Le nostre religioni di cristallo/che risplendono tanto bene/alla luce del giorno/si infrangono con gli sputi/della realtà. Questa l’amara rivelazione. Ma non è una resa, perché da quelle premature disillusioni emerge, mai però con toni retorici, una «speranza ottimistica nel cambiamento». Lo si intuisce nei versi di La nostra ultima fede: vogliamo vivere da uomini/ finché saremo veri. La poesia, scritta cinque anni prima che la Primavera di Praga fosse soffocata dai carri armati sovietici, è “dedicata, polemicamente, all’ortodossia dell’intellighentia comunista russa e francese”: varrà per noi il vocabolo “umanesimo”/metafisiche al bando con tutti gli “ismi”/ tendenziosi/seguiti a ruota/dai dogmi degli indegni. Un’avversione verso la saccenza e l’ipocrisia ideologica che, scrive Marchianò, sembra anticipare di qualche anno, quella espressa da Pier Paolo Pasolini in Uccellacci e uccellini, dove Totò e Ninetto Davoli arrostiscono e mangiano il petulante corvo parlante. Nelle poesie di Gabanizza la vita reclama fiori nei gonfiori dell’anima. Anche se questa è ferita dagli ingranaggi crudeli del profitto arido dell’azienda. Sempre in direzione ostinata e contraria, ma fedele al suo destino, torna, infine, negli Appunti per un poema, a rivendicare l’antico sogno: non abbiamo dimenticato le nostre carovane/di antichi pionieri per nuove giustizie. Si avverte, “uno slancio, un desiderio di cambiare le cose, di cambiare la vita”, come recitava Giorgio Gaber in Qualcuno era comunista. Ma, attenzione, ammonisce il poeta: nessuno voglia correre da solo oltre gli orizzonti. Perché qui c’è molto da arare. •

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