<img height="1" width="1" style="display:none" src="https://www.facebook.com/tr?id=336576148106696&amp;ev=PageView&amp;noscript=1">
L'intervista

Fulvio Valbusa, il campione che parla coi lupi, presenta «Randagio»

Oggi, alle 18, nella sala Maffeiana del teatro Filarmonico
Fulvio Valbusa
Fulvio Valbusa
Fulvio Valbusa
Fulvio Valbusa

Scatta oggi, 4 ottobre, la prima tappa del tour di presentazioni del libro "Randagio" di Fulvio Valbusa e Serena Marchi.

Alle 18, nella Sala Maffeiana del Teatro Filarmonico, il campione olimpico, assieme alla co-autrice Serena Marchi, all'ex calciatore Damiano Tommasi e ai giornalisti del nostro quotidiano Gianluca Tavellin e Luca Mantovani, presenteranno il volume. (Non serve prenotare ma è obbligatorio mostrare il green pass).

***

C'è un prima e un dopo, nella vita di Fulvio Valbusa. Un prima fatto di perdita e sofferenza, di un dolore che si è tramutato in sfida, quella di diventare un campione di sci, di quello sci che è il più faticoso, sfinente, stremante, e cioè il fondo. Campione olimpico, ha vinto la medaglia d'oro a Torino nel 2006 e la medaglia d'argento alle Olimpiadi di Nagano 1996, un altro argento e quattro bronzi in diversi campionati del mondo, 36 medaglie ai campionati italiani. Insomma, uno dei più grandi fondisti a livello mondiale.

E poi, c'è un dopo. Che comincia nel 2008 quando, raggiunta la vetta, Valbusa torna là dove tutto era iniziato, a Bosco Chiesanuova, tra le sue montagne, gli animali selvatici, la solitudine, la neve e il suo sapore «l'unica cosa che nella mia vita non è mai cambiata». Ed è nel cuore della Lessinia, dove l'ex campione fa la guardia forestale - o il «guardacaccia» come ama definirsi per sottolineare quel filo rosso che lo lega, forte, al papà, che faceva quello di mestiere - è lì che conosce il lupo. Slavc e Giulietta, la coppia che dopo 150 anni segna il ritorno di questi grandi carnivori sui monti veronesi, diventano la sua nuova famiglia, la sua ragione di vita.

Lui se ne innamora immediatamente, riconoscendo in quell'animale - da tutti temuto e odiato ma allo stesso tempo invidiato e ammirato - se stesso. «Il lupo», spiega Valbusa, «da sempre ha portato problemi là dove andava ad insediarsi. Ma lui se ne è sempre fregato. Lui fa il lupo. Fa quello che la sua natura gli ha insegnato. E io mi ci riconosco: per anni mi hanno cercato, osannato, voluto, spesso anche criticato: ma io sono io, non posso essere quello che vogliono gli altri o cambiare perché me lo chiedono». Non se lo è scelto a caso il titolo del suo libro, «Randagio», un'autobiografia scritta a quattro mani con l'autrice veronese Serena Marchi, edita da Fandango e in libreria dal 30 settembre. Una storia che inizia dal 1969, quando Fulvio nasce, insieme al fratello Silvio, in una famiglia molto numerosa, otto figli in tutto: perché serve partire da lì per capire quelle verità, mai rivelate prima, che lo hanno reso un campione prima e, oggi, l'uomo che ulula ai lupi.

Tutto è iniziato per Silvio...
Siamo, eravamo gemelli. Un legame che solo chi ha un gemello può capire. Da ragazzini a entrambi piaceva andare sugli sci, lui aveva davvero questa passione. Poi però il male che ha avuto lo ha fermato: ricordo i dolori che aveva alla testa, dalla mattina alla sera. Pativa tantissimo e non so come facesse a sopportare tutta quella sofferenza. Poi se ne è andato, avevamo 15 anni. È in quel momento che capisco dove voglio andare: lo sci è la mia strada, voglio diventare un professionista nonostante la mia famiglia non avesse molti mezzi, eravamo in tanti fratelli. Lavoro e mi alleno, mi alleno e lavoro. E fatico tantissimo su quegli sci, andando sempre oltre, oltre i miei limiti, oltre la soglia di fatica, perché - pensavo - tanto mai avrei potuto soffrire quanto Silvio. Io ero il sopravvissuto tra i due: sapevo di non essere il migliore ma sapevo anche che toccava a me, a quel punto, prendere dalla vita quanto più possibile.

La sua è stata una scalata, passo dopo passo. Chi ha avuto al suo fianco?
Carlo Vito Scandola, il mio allenatore: anche lui di Bosco Chiesanuova, mi ha guidato, indirizzato. Mi ha preso in mano. Io volevo «sgasare», andare avanti, correre a manetta, ma lui mi ha insegnato che la tecnica, nel fondo, è fondamentale. È entrato nella mia testa, mi ha «educato». Mi ha seguito sempre, veniva a casa mia e dopo l'allenamento passavamo ore a parlare, ad analizzare quello che avevo fatto: era uno di quelli che oggi si chiamano mental coach.

A proposito dei campioni di oggi. Sembra che oltre all'oro, penso ad esempio ai vincitori di Tokyo, l'obiettivo sia conquistare anche tutto quello che ci sta attorno: l'esaltazione della gente, le luci, le passerelle. Era così anche vent'anni fa?
Per me era diverso: vincevo e tornavo a casa. Non mi interessavano interviste, feste, bandiere. Mi ero posto un obiettivo, ci credevo, mi ero allenato per raggiungerlo e ci ero riuscito. Il mio era un lavoro come un altro, niente di più. Ma mi rendo conto di essere sempre stato un po' orso da questo punto di vista.

E quando ha deciso di dire basta?
Quando mi sono sentito arrivato. Avevo deciso che Torino sarebbe stata la mia ultima Olimpiade. Volevo l'oro, l'avevo conquistato, a quel punto per me non aveva senso cavalcare l'onda: molto meglio terminare con la medaglia più bella. Quindi ho fatto un altro anno di «scarico» ma poi basta.

Ed è tornato in Lessinia, dove tutto è iniziato...
Ho fatto la scelta di diventare professionista, girare il mondo, vincere medaglie. Ma prima o poi tutto finisce. E secondo me è giusto tornare là da dove si è venuti, se quel luogo lo si sente ancora proprio. E la Lessinia è la mia terra, qui ci sono le mie radici. Avevo la fortuna di avere il lavoro più bello del mondo che mi aspettava, e che mi legava come con un filo rosso a mio papà, che era un «guardaccia». E facendo questo mestiere mi sono accorto di alcune caratteristiche di questo territorio che prima non avevo mai notato, preso com'ero dal cronometro, dal tempo, da altre priorità. Ho ritrovato la natura, ho conosciuto la sua autorità. E ho scoperto il fascino del lupo.

Come è stato il primo incontro?
È stato fantastico. Anche per un forestale è molto difficile riuscire a vedere un animale così schivo, elusivo, un fantasma della notte. Era successo al crepuscolo: stavo mettendo delle fototrappole (sono strumenti che serve a scattare foto agli animali senza accamparsi, ndr) e scendendo in una stradina ho sentito un rumore di «selvatico» che si aggiungeva a quello dei miei scarponi. Mi sono bloccato, ho visto quella sagoma ferma a una distanza ravvicinata, inusuale. Ho capito che era Slavc e mi sono gelato, inchiodato per guardalo. Sapevo che sarebbe stato un attimo, lui sarebbe scappato appena capiva chi ero. Invece quell'attimo è durato un'eternità, una ventina di secondi. Ed è iniziato così il mio amore per lui.

Perché il lupo?
Io fino ad allora sapevo poco di questo animale, mi era chiaro però il suo comportamento e le conseguenze sul territorio quando arriva. All'inizio, quando Slavc e Giulietta scelsero la Lessinia, tutti erano felici, entusiasti: la loro presenza era la testimonianza della bontà di questo ecosistema. È andato tutto bene fino a quando non ha iniziato a sbranare altri animali, facendo il lupo, seguendo la sua natura: lui è un opportunista, è molto furbo, usa a suo favore tutte le occasioni che trova per sopravvivere e gli allevamenti presenti qui in Lessinia sono stati per lui come un supermercato a cielo aperto. È la natura, e non si può contrastare: è autorevole, è più forte di ogni tentativo dell'uomo di piegarla. Il lupo ovunque andasse ha sempre fatto rumore, ma lui sempre se ne è fregato. E io mi ci riconosco: ti vogliono, ti cercano, ti osannano, poi ti criticano. Ma io sono io, non posso essere quello che vogliono gli altri o cambiare perché me lo chiedono.

Sei il referente della forestale per i lupi. E in Lessinia non tutti apprezzano le tue posizioni.
Qualcuno sostiene addirittura che i lupi, qui, li avrei portati io...

Ti manca l'adrenalina delle gare?
Quando davanti a te, a una manciata di metri, hai un lupo che ti guarda negli occhi, sei carico di adrenalina. Mi è successo anche pochi giorni fa, con un gruppo di cuccioli, gli ultimi di Slavc e Giulietta. E ogni volta è una sfida: devi fare in modo che non ti vedano, cerchi di spiarli andando sottovento, tentando di mimetizzarti per ingannarli, per non farli scappare. Ecco, riuscire a vederli è come vincere una medaglia.

Francesca Lorandi

Suggerimenti