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Elena Cattaneo

Elena Cattaneo senatrice a vita e professore ordinario di Farmacologia all’Università degli Studi di Milano
Elena Cattaneo senatrice a vita e professore ordinario di Farmacologia all’Università degli Studi di Milano
Elena Cattaneo senatrice a vita e professore ordinario di Farmacologia all’Università degli Studi di Milano
Elena Cattaneo senatrice a vita e professore ordinario di Farmacologia all’Università degli Studi di Milano

Le armi della conoscenza mettono in discussione ogni presunto dogma. Ma la guerra che vuole dichiarare Elena Cattaneo, senatrice a vita e professore ordinario di Farmacologia all’Università degli Studi di Milano, è l’unica che invece di fare vittime salva vite. Ecco perché, in teoria, non dovrebbe essere difficile trovare aspiranti «militari» pronti ad arruolarsi con sulla divisa le mostrine della scienza. Leggendo il suo libro si rischia di essere presi dallo sconforto e dall’idea di vivere in un Paese, l’Italia, che combatte la scienza anziché promuoverla e sostenerla. Il metodo scientifico, sperimentale, trasparente e ripetibile, che è l’ossatura di «Armati di scienza» (Raffaello Cortina, pp. 160, 13 euro), è stato spesso ignorato o, peggio, consapevolmente tradito. Come si può restare sulla retta via? Proprio «armandoci di scienza». Lo spazio pubblico va presidiato dalla scienza, altrimenti rischiamo di lasciare campo libero ai ciarlatani che, purtroppo, sono ben più bravi degli scienziati a comunicare. Sta a ogni studioso riscoprire e onorare la sua responsabilità pubblica, spiegando i dati oltre a metterli a disposizione, rendendo chiaro a tutti che fallire è indispensabile per capire quali strade di ricerca continuare a perseguire e quali no. Solo con la condivisione dei risultati, degli errori e dell’entusiasmo di chi fa ricerca la scienza potrà riconquistare autorevolezza e fiducia e consolidarsi come patrimonio di tutti. Che valutazione dà della gestione politica dell’emergenza adottata dai due governi che si sono succeduti in questo periodo molto complicato? E secondo lei la comunità scientifica italiana ha reagito bene ed è stata ascoltata? Probabilmente solo la storia darà un giudizio sulle scelte fatte, quelle non fatte, le responsabilità, gli eventuali errori: la scienza può fornire dati, modelli, scale di certezza e di probabilità, ma non può e non deve sostituirsi alla politica quando si tratta di decidere. Nessuno può garantire a priori che una certa decisione sia quella giusta; l’importante è che il decisore politico sappia assumersene la responsabilità, affiancata dal coraggio di cambiare strada al più presto se necessario. La comunità scientifica italiana ha messo - come sempre - al servizio dei cittadini le proprie competenze con grande abnegazione; a questa dimensione, però, se ne è aggiunta un’altra, mediatica e social, alla quale gli scienziati non erano abituati. È capitato quindi che il confronto tra studiosi, anche acceso, parte integrante del lavoro della scienza, sia stato interpretato dai media come «divisione tra scienziati», o che non sia stata chiarita bene la differenza tra i fatti esposti col supporto di evidenze scientificamente validate e le opinioni, che, per quanto legittime e affascinanti, vanno dichiarate come tali e necessitano di «chili» di prove per essere verificate, chiunque sia ad esprimerle. Il Covid, di cui avremmo fatto volentieri a meno, ha dimostrato l’importanza della scienza: fare un vaccino, più vaccini, in così poco tempo è l’esempio della serietà e della preparazione della comunità scientifica internazionale. È la prima volta che l’applicazione d’urgenza di questo rimedio diventa per forza di cose un work in progress in cui alla scienza è concesso di provare e sbagliare, come succede quando si sperimenta. Può essere l’occasione di far capire alle persone il concetto di metodo scientifico? Molti cittadini, spaventati da una vulnerabilità a cui da generazioni non erano più abituati, hanno reagito con una sorta di innamoramento verso la scienza e la medicina, rivolgendosi agli studiosi quasi fossero oracoli in grado di «erogare» certezze nell’emergenza. Una parte della società, inconsapevole di aver sempre beneficiato dei risultati della ricerca, invece è stata da subito insofferente nel non ricevere dalla scienza soluzioni immediate e «pronto uso». In entrambi i casi è mancata la consapevolezza di come funziona la scienza, della fatica e dell’impegno richiesti dal metodo scientifico, l’unico in grado di farci progredire nell’ignoto, sperimentando ipotesi per fornire prove a loro volta verificabili, visibili, pubbliche, ripetibili. Uno strumento a disposizione di tutti noi per fare i conti con l’incertezza, le paure e la fallibilità dell’esistenza umana. Lei ha fatto un lavoro straordinario studiando la malattia di Huntington e i relativi meccanismi patogenetici. Nel 2013 il presidente Napolitano l’ha nominata senatrice a vita e così ha avuto modo di capire come funziona il sistema da questa parte della barricata, dove a volte sono state approvate o proposte leggi non proprio rispettose della scienza. A che punto è la sua battaglia? Non credo che il mio impegno si possa definire una battaglia solitaria contro le sirene dell’antiscienza. In Italia manca ancora un canale istituzionale di scambio tra scienza e politica, e credo che tutti gli studiosi possano e debbano contribuire a costruirlo, portando al decisore politico prove verificate di cui tenere conto nel processo della decisione pubblica. Per poter mettere le proprie competenze al servizio del Paese nella maniera più efficace, è importante capire come funziona la politica, i meccanismi del consenso e della rappresentanza. Il titolo di un capitolo illuminante del suo libro è «Se naturale non fa rima con salutare». Vengono smontate scientificamente una serie di glorificazioni pubblicistiche del «bio» che però il Parlamento italiano ha tentato in varie occasioni di trasformare in leggi. Come si fa a estirpare dalle convinzioni dei consumatori questa visione antiscientifica della realtà se anche molti parlamentari la fanno propria? I prodotti dell’agricoltura italiana, sia integrata che biologica, sono buoni e sicuri. Credo si debba rinunciare a mistificazioni o narrazioni di marketing, spogliando l’agricoltura di quell’aura «mitica» e bucolica per cui, a pancia piena, rifiutiamo ideologicamente alcuni prodotti e metodi di coltivazione per preferirne degli altri apparentemente più «naturali» - che però, secondo le evidenze scientifiche disponibili, risultano meno sostenibili su larga scala. O addirittura protocolli d’ispirazione esoterica, come quelli «biodinamici», che rischiano oggi di trovare un riconoscimento in una legge d’iniziativa del Parlamento italiano, in cui li si equipara all’agricoltura biologica, addirittura permettendo ai loro rappresentanti di sedere ai tavoli ministeriali, nonostante siano gestiti da enti privati, senza un disciplinare condiviso. Nulla di simile accade in Francia, Germania o Spagna, dove chiunque resta libero di praticare l’agricoltura «biodinamica», ma senza sdoganare in legge il pensiero magico e i regolamenti di multinazionali private. Ecco perché auspico un futuro libero da ogni ideologia, in cui si possa scegliere campo per campo, terreno per terreno, settore per settore, coltura per coltura, la pratica migliore, la più adatta al contesto specifico, avvalendosi del meglio delle conoscenze maturate e disponibili sulla base delle evidenze. Anche noi giornalisti abbiamo le nostre responsabilità nel diffondere notizie imprecise e fuorvianti, magari dando pari dignità a opinioni discutibili e fatti scientificamente incontrovertibili. Ci suggerisce un metodo... scientifico per evitare di cadere nella mistificazione del dibattito «democratico»? Sia lo scienziato che il giornalista rispondono a un’etica professionale che obbliga a riportare i fatti sulla base di fonti verificate. A entrambi non è permesso lasciarsi andare a suggestioni che trasformano i fatti in «rappresentazioni» per assecondare un’opinione o un sentimento avvertito come predominante. Quando questo metodo è rispettato, tanto la scienza quanto il giornalismo realizzano la loro missione: offrire al cittadino elementi utili di conoscenza in modo onesto e trasparente. È per questo che ho voluto dedicare il libro a Rossella Panarese e Pietro Greco, purtroppo scomparsi prematuramente a pochi mesi l’una dall’altro, che sapevano bene come comunicare la scienza richieda studio, approfondimento, e come non tutti siano disposti a dedicarvi il tempo necessario. Un tempo fondamentale per trovare le parole corrette, per spiegare e rendersi comprensibili, per non lasciarsi andare a generalizzazioni. Spero che Rossella e Pietro continueranno ad essere presi come riferimento ed esempio di questa consapevolezza.•.

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