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INTERVISTA SACERDOTE

Don Antonio Mazzi: «Io, prete degli "scartini" combatto perché stiamo perdendo i giovani»

Don Antonio Mazzi, 92 anni, veronese,  fondatore della Comunità Exodus per giovani tossicodipendenti
Don Antonio Mazzi, 92 anni, veronese, fondatore della Comunità Exodus per giovani tossicodipendenti
Don Antonio Mazzi, 92 anni, veronese,  fondatore della Comunità Exodus per giovani tossicodipendenti
Don Antonio Mazzi, 92 anni, veronese, fondatore della Comunità Exodus per giovani tossicodipendenti

“Il dialogo del sorriso” (Cairo), l’ultimo libro del noto sacerdote veronese-milanese don Antonio Mazzi, non aggiunge nulla alla sua attività di 40 anni tra gli ultimi, ma indica percorsi spirituali e concreti per affrontare le sfide difficili del nostro tempo, come ci racconta in quest’intervista. Fondatore della comunità Exodus, don Mazzi ha sempre seguito casi molto difficili, in prima linea, raccogliendo sfide che ad altri sembravano impossibili. Non a lui.

Don Mazzi, il sorriso “dialoga” tramite la bocca… ma dietro la mascherina? Il sorriso è quello della mamma quando siamo usciti dalla sua pancia: prima è stato un fremito, poi un sorriso che ha iniziato il racconto della nostra vita. E io credo che sia anche il sorriso di Dio. Ma purtroppo è la prima cosa che perdiamo: sappiamo ridere, ma sorridere e far sorridere è molto più difficile. Oggi con la mascherina dovremmo sorridere con gli occhi, che sono tutto il volto e decidono chi siamo. Se la gente non è superficiale, ma ci conosce e ci ama, capisce di più dai nostri occhi che dalla nostra bocca.

Questo è un libro di meditazioni e cantici, perché questa scelta? L’ho scritto di notte. Io quando parlo ai ragazzi faccio i miei scarabocchi sul block notes; siccome c’è stato un periodo in cui non riuscivo a dormire, ho ripreso questi appunti e inventato questi cantici, nati da vari incontri. La notte è dolce o è terribile: se dormi va bene ma, se non dormi, o è una notte di contemplazione o una notte in cui riemergono le cose del giorno.

“Scartini” è la prima parola significativa che leggiamo: “Ognuno di noi, almeno una volta nella vita, lo è stato”. Essendo io veneto e giocando a volte a carte coi ragazzi, lo scartino mi è sempre stato simpatico perché è quello che le prende. Piuttosto che chiamare uno poveretto o tossicodipendente, preferisco questa parola. Gli stessi apostoli di Cristo erano dodici scartini: erano solo pescatori rispetto ai sacerdoti, ai dottori della Legge nel tempio. E Cristo lo sapeva bene, ce lo dice nelle sue parabole migliori.

“Gli scartini - scrive- ci aiutano a inventare una civiltà della minoranza, della fragilità”. L’ho scritto perché per me la vera civiltà è quando capiamo che siamo fragili, non deboli. Non confondiamo: un vaso di cristallo è fragile, non debole. Ciascuno di noi è un’opera d’arte fragile perché ha una propria storia e porta dentro sé la storia del mondo, dei genitori, dell’albero genealogico.

Perché allora molti tra pochi giorni diranno “anno nuovo, vita nuova”? Al di là delle singole motivazioni, la vita va guardata tutta con saggezza. Stiamo attenti a non fermarci al passato, ma consideriamo le nostre radici perché da queste nasce il domani, quindi cerchiamo di darvi un senso.

Nel libro alcune frasi sono molto forti: “il consumismo ci porta al suicidio” o “c’è troppa gente, poca umanità”: ma chi può smuovere le coscienze? Il Padre Eterno ci ha mandato “Qualcuno” che può smuoverle, ma non è solo questione di chi crede… Ad esempio, nella mia vita io non avrei mai pensato di fare il prete. A 20 anni sono andato a Ferrara per fare l’educatore, ma con l’alluvione del Po ho visto tanti ragazzi rimasti senza nessuno, e da professore che volevo diventare dopo il Conservatorio a Bologna ho detto “no”, voglio essere il padre di questi, e sono diventato prete. Non un prete “serio”, ma un prete. Essendo rimasto senza padre, ho colmato il mio vuoto di paternità divenendo padre degli altri. Sono contento della mia scelta, soprattutto come “padre degli scartini”. Poi sono andato negli anni ’60 a Roma, in un quartiere tra i più difficili. Poi sono venuto in via Roveggia a Verona per lavorare con gli obiettori di coscienza nel ’74 e abbiamo fatto le prime case-famiglia. Poi mi hanno chiesto di andare a Milano nel ’78-’79: si era incerti se chiudere o no la casa della nostra Opera don Calabria vicino al Parco Lambro. Con la storia della droga e del terrorismo, siamo rimasti per intraprendere un’avventura rivelatasi nel tempo straordinaria, impensabile all’inizio. Oggi ho ben 92 anni, sono a Milano da 40 anni e vivo ancora in comunità, come una grazia di Dio.

Un prete del fare, sempre attivissimo… Un fare che dipende dall’essere. Molte volte ho fatto scelte da incosciente: poi mi sono accorto che è stata la Provvidenza. Quando ti trovi in mezzo a gente bisognosa, capisci che non puoi non fare. Ma non è il fare per fare, dove corri il rischio di combinare pasticci, o il protagonismo o lo spavento.

Aprire 40 Comunità terapeutiche di Exodus non è da poco. Qui non dobbiamo pensare a cosa raccogliamo, dobbiamo seminare. Io sono contento perché ho seminato. Sul raccolto mi devo mettere in ginocchio e pregare. Ci sono ragazzi che muoiono e che scappano, situazioni drammatiche. È più facile darsi la colpa ma bisogna accettare, non perché si è incoscienti ma perchè si è fragili. Ci vuole il coraggio di fare, di uscire dalle chiese e dalle case. Stiamo perdendo i giovani, ma non possiamo lasciarli andare: Cristo non ha chiuso le porte, anzi non aveva casa.

Cosa fare per loro? Sto tentando di realizzare qualcosa per gli adolescenti, perché l’adolescenza non l’abbiamo ancora scoperta, al di là dei libri e dei centri specializzati. L’età 10-14 anni ci impone una riflessione collettiva, genitori, insegnanti, preti, politici perché, in quel tempo sconvolgente, al mondo un po’ incantato dell’infanzia segue spesso una realtà di solitudine. Qui a Milano stiamo cercando di prendere quelli che vengono sbattuti via dalla scuola media, come faceva don Milani. Dobbiamo pensare ad una scuola che non ha le classi né le regole insignificanti; ripensare all’educazione e alla paternità.

E un Augurio per Verona? È una città bellissima, per una posizione e un paesaggio straordinari. Sono nato a San Massimo e a Verona ci sono sempre stato volentieri. E poi ha una storia fatta di grandissime figure tra cui don Calabria, don Mazza, Maddalena di Canossa... Come Buon Natale e Anno Nuovo auguro ai veronesi di ritrovare altri educatori esemplari per la società. •.

Stefano Vicentini

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