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BERTO BARBARANI ECCO COSA CI RESTA

Il monumento a Berto Barbarani tra piazza Erbe e via Cappello
Il monumento a Berto Barbarani tra piazza Erbe e via Cappello
Il monumento a Berto Barbarani tra piazza Erbe e via Cappello
Il monumento a Berto Barbarani tra piazza Erbe e via Cappello

Semmai, dopo morto, gli avessero eretto un monumento, lo avrebbe voluto non tra via Cappello e piazza Erbe dove si trova da diciotto anni la statua bronzea, opera di Novello Finotti, che lo raffigura. Lo avrebbe voluto all’angolo di piazzetta Pescheria dove c’era la redazione del Gazzettino di cui era un giovane redattore. Seduto alla scrivania, vedeva, sopra il muro e tra gli alberi giganteschi, il monumento a Garibaldi dei giardini di piazza Indipendenza. Il motivo per cui lo desiderasse proprio lì, anche se si sarebbe accontentato come piedistallo del muretto della scalinata, non aveva niente di eroico e lo spiegò lui stesso in un giorno di foglie cadenti: «Così me tocarà tèndarghe a le serve quando le se fa palpàr dai soldadi». Le signorine erano tutte Nina o Nineta, la personificazione dell’amore che lui sognava come un rifugio sicuro che lenisse la sua malinconia di uomo solitario, un orso, come si definì in una lettera a un amico cui promise che quando sarebbe morto gli avrebbe lasciato in eredità la pelliccia, un orso buono che però la bontà, la generosità e il genio non riuscivano a schermare dalle scabrezze della bohème dello spirito, anzi, le acuivano. Sennonché le Nine e le Ninete, le immaginarie morose («...se sémo basà driti e roèrsi») non erano proprio delle santarelle. «E l’altra sera che girava in Bra/ t’ho visto a spasso e t’ho fato la spia//fora de Porta Nova te si andà./Adesso cagna, te saressi mia /E invesse con un semplice soldà...». Risposta: «No eh! L’era un uffissial d’artigliera!». A centocinquant’anni dalla nascita di Berto Barbarani, cosa resta del soffio vitale del massimo cantore di Verona che mise in scena amore e povertà, bellezza e miseria, quotidianità di giorni teneri o malati, un piccolo universo di anime raccontato nel dialetto dei nostri nonni e bisnonni, la lingua madre che sta via via perdendo i figli? Restano i «Canzonieri», la dolente epopea dei pitòchi, il sussurro dell’Adige, il respiro possente del Baldo ispiratore di fantasie, il mito misconosciuto di un poeta dall’immediatezza folgorante, le testimonianze degli amici, soprattutto di Renato Simoni e di Angelo Dall’Oca Bianca che ne condivisero in parte nostalgie, affanni e pallide gioie, le animate e scapigliate rimpatriate a casa Caperle, sul colle di San Leonardo («La mia seconda famiglia spirituale») fra olivi patriarchi e cedri del Libano che allargavano i rami come braccia accoglienti e dove le dame curavano con delicato amore i fiori dei giardini, non limitandosi a ornarsene i vezzosi cappellini. Ma quel che resta è soprattutto l’anima sconfinata, umile come quella dei suoi personaggi colti nel palpitante mondo reale, quel piccolo mondo antico che era allora la nostra città, personaggi raccontati e sofferti in un’immedesimazione a volte ingenua, a volte dolorosa, a volte finemente ironica e affettuosa, col sapore di un linguaggio popolare che è canto e controcanto sorgivi di fonte fresca e immacolata, pensieri che ancora emozionano noi pitòchi di sentimenti e di ardori, Nineti e Ninete di un mondo che più si allarga più ci è estraneo e ostile. Ho in casa una lettera di Barbarani o, meglio, un foglietto con l’intestazione «Gazzettino». Ne ho fatto un quadretto che ho appeso tra il camino e la libreria. «Cara Maria, devo attendere in ufficio dalle 12 alle 13 uno che mi deve dare un po’ di soldi. Mandami quindi un paio di fette di polenta col pocio che ho fame - qui con un tovagliolo pulito. Pel vino ci penso io. Ciao. Bacia Mamma. Tuo Berto». Maria potrebbe essere stata la cugina che faceva parte della famiglia o la sorella malaticcia che si chiamava Marianna ma il cui nome il poeta potrebbe aver accorciato in Maria oppure la padrona di un ristorante vicino. Ma perché quell’intimo «tuo»? La sua casa era poco lontana da piazzetta Pescheria, in via Ponte Nuovo 5, dove il padre Bortolo aveva un negozio di ferramenta. Berto aveva dieci anni quando nella notte del 17 settembre del 1882 uno dei mulini ancorati alla Bra’ dei Molinari, per un’improvvisa piena del fiume, ruppe gli ormeggi e, dopo avere galoppato sulle onde per duecento metri come una tozza nave sballottata dalla tempesta, andò a schiantarsi contro il Ponte Nuovo distruggendolo in parte. Le macerie, gonfiarono il fiume e ne aumentarono la furia. Il resto del ponte venne spazzato via assieme a tredici case. Metà delle abitazioni della città vennero allagate. Berto aiutò il padre a liberare la bottega dal fango. Nei successivi mesi di ricostruzione, il Canale dell’Acqua morta venne interrato cosicché sparì del tutto un poetico angolo della città, l’Isolo di San Tomaso, con le sue segherie, filande e osterie. La Verona dei pitochi andava a cercare fortuna in "Merica". «Crepà la vaca che dasea el formaio/morta la dona a partorir ’na fiola/protestà le cambiale dal notaio/una festa, seradi a l’ostaria/co un gran pugno batù sora la tola:/«Porca Italia» i bastiema: "Andémo via"». Anche Barbarani si sentiva pitòco o, quantomeno, si immedesimava nella povera gente. «L’è du giorni, dal bon, che fago passi/in cerca di lavoro e son digiuno!/Ghè tanti preti grassi/che mi finisso par magnarne uno!...». La Verona di allora era ricca solo di chiese e di osterie. I più celebrati santuari del vino erano l’Osteria scaligera in piazza Indipendenza, la Bottiglieria al Piccolo Mondo Antico in via Scudo di Francia, la Lowenbräu in piazza Bra, l’Antica taverna del Brigante in via del Pontiere Nuovo, l’Osteria della Luna un po’ fuori San Zeno, la Trattoria dell’Amalia sotto la pergola di ponte Garibaldi, il bettolino dell’Adele detta Nina in Corticella San Marco, l’osteria Alla Bissa vicino al molo della Dogana Vecchia, l’Osteria alle Arche, all’ombra delle imponenti tombe aeree degli Scaligeri, il Caffè Vittorio Emanuele in piazza Bra e la Trattoria dell’Ortolan di proprietà del nonno di Emilio Salgari, in vicoletto Leoni. Barbarani, come tutti i poeti, amava la tranquillità e scriveva i suoi versi con un mozzicone di matita seduto a un tavolo della Trattoria dell’Amalia, mentre la sera si trasferiva al bettolino dell’Adele, vicino a casa. Quando aveva ospiti di riguardo li portava nella taverna di Vitale Sterzi, in via Scudo di Francia, dove era sicuro che non avrebbe sfigurato e, per di più, avrebbe sentito declamare i propri versi dall’erudito oste che componeva anche in proprio. Fosse vissuto molto di più avrebbe sentito recitare le proprie poesie da Giorgio Gioco, il padrone dei Dodici Apostoli che con prodigiosa memoria, anche dopo i novant’anni, ne dilettava i propri ospiti con voce tonante. Giorgio Gioco e il fratello Franco erano ragazzini quando il padre ogni venerdì li spediva a casa di Barbarani con una terrina di gnocchi e una di baccalà. Per non scottarsi troppo le mani compivano il breve tragitto di corsa, con grande strepito delle «sgalmare» che, rimbombando tra le case, faceva volar via i colombi. Il poeta era stato padrino di battesimo di Franco. Morta la moglie Anita, morto Dall’Oca Bianca che per lui era stato più di un fratello per quasi cinquant’anni, l’autunno del poeta declinava verso una stagione fatale. La solitudine lo mordeva e lo angosciava. Per di più era scoppiata la guerra. Il suo canto si era affievolito e si stava per spegnere. Verona non era più quella sei suoi versi, le Nine e le Ninete erano solo sbiaditi ricordi. «Vivo de storie e dormo co le done/che meto in leto ne le me cansone!». Usciva di casa raramente, l’«océto del sol» non riusciva più a scaldare le pietre del Listón. La gente lo vedeva nella sua altezza e magrezza, camminare lento e curvo appoggiato al bastone, col solito cappellaccio nero a larghe falde in testa. Era il poeta che aveva cantato Verona, Madonna Verona, «...la tor su par aria, col Rengo che sona/e i sento ombreloni che bate el marcà...». «El rosario del cor» non aveva più grani da far scorrere tra le dita lunghe e scarne. Timido e schivo, non aveva mai amato gli applausi; se avesse potuto avrebbe evitato le feste e le cerimonie in suo onore cui lo trascinavano Simoni e Dall’Oca Bianca. Sognava, e più che mai negli ultimi anni di vita, di tornare nella botteghetta in cui aveva affiancato il padre nella vendita di ferro e chiodi. Rimasto fanciullo nel cuore come dopo quel primo giorno di scuola in cui gli avevano chiesto se avesse pianto e lui aveva risposto «Na nina», non era fatto per far fronte alle tempeste della vita che, al contrario, avrebbe dovuto essere popolata da Nine e Ninete nonché odorosa del fumo di polenta col brustolìn che i camini diffondevano nell’aria. Quando all’ospedale il vecchio medico di casa si china su Barbarani morente, «Non soffre, sogna» sussurra agli amici e alla nipote al capezzale.•.

Silvino Gonzato

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