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Bruno Ruffo, guerriero da Stra' all'isola di Man

FUORICLASSE. Quando correva da ragazzo le galline del paese non facevano più le uova. La carriera del motociclista partì dall’officina sulla Statale 11 e finì al Tourist Trophy: 61 record e tre campionati mondiali

La prima polvere bianca sollevata dalla ruote della motocicletta, Bruno Ruffo, celeberrimo centauro laureatosi per ben tre volte campione del mondo, l'ha respirata a Colognola, dove aveva visto la luce il 9 dicembre 1920.
È ancora vivo in molti colognolesi il ricordo di questo fuoriclasse della due ruote, guzzista ma non solo, spentosi il 10 febbraio 2007, dopo una carriera in cui ha siglato ben 61 record mondiali.
Quando si dice «un uomo, una leggenda», in paese si pensa a lui, a quel ragazzino appassionato di motori che bazzicava nell'officina di famiglia, che fu prima del nonno Francesco e poi del papà Augusto; un'officina, con annesso autonoleggio, che sorgeva a Stra', lungo la strada statale, a pochi passi dall'antico oratorio dei Santi Sebastiano e Rocco.
Che Bruno fosse nato per vincere, a Colognola avevano sentore in tanti, perché quel bambino amava più di tutto trascorrere il tempo tra ruote, benzina e cuscinetti a sfera nel laboratorio del padre; solo qui si riusciva a domare quello spirito libero che ne faceva a scuola un alunno insofferente dei libri (a undici anni raccontò alla mamma di averli persi, dopo averli, invece, gettati in un torrente), a casa un grande divoratore delle riviste di moto e sulla strada un campione eccezionale.
Nessuno più di lui ci sapeva fare con le motociclette tanto che sembrava averle proprio nei cromosomi anche quando, a circa dieci anni, iniziò a salirci sopra, a guidarle, a ripararle, a smontarle quasi per carpirne tutti i segreti. A quindici anni era già un esperto: quando una moto presentava qualche problema particolare, in officina chiamavano lui che, nell'arco di qualche ora, la riconsegnava perfettamente funzionante. Bruno ci mette passione e competenza, ma il suo spirito guerriero (lo chiameranno proprio così qualche anno più tardi, «perché», come viene ricordato nel libro Cuore e asfalto, scritto dal figlio Renzo Ruffo e dedicato al padre, «correva a muso duro, stringendo i denti sulle Guzzi, le Mondial, le Alfa, le Maserati. Sempre a testa bassa, sempre con grinta da vendere») non poteva limitarsi a riparare i motori delle moto; il fascino di farli vibrare, di tirarli al massimo e di domarli si faceva troppo forte e così, in un assolato primo pomeriggio d'estate, il sogno di Bruno mette le ali: mentre il padre è a tavola con il resto della famiglia, il giovanissimo Ruffo sale su una moto in pronta consegna e, dopo averla avviata, gira nel cortile di casa mentre i genitori escono e lo obbligano a fermarsi.
Se le galline curate dalle vicine di casa facevano poche uova, Bruno avrebbe dovuto sentirsi in colpa, perché le massaie di Colognola non esitavano a rimproverargli che quando sfrecciava con la moto con il tubo di scarico aperto, provocava un rumore così assordante che le povere bestie si spaventavano e non facevano più uova.
In cortile subito cercarono di farlo desistere dal girare in moto, ma per poco, perché solo qualche giorno dopo Bruno ci riproverà e stavolta, trovando il cancello del cortile aperto, sgattaiolerà in strada, sulla statale. E poco importa se i carabinieri lo rincorreranno venendo, poi, a casa sua alla sera.
Ormai la passione era incontenibile e Bruno lo capì quando, intorno ai 14 anni, andò per la prima volta all'Autodromo di Monza: «Ero appoggiato alla rete di delimitazione della pista quando vidi al primo giro i piloti in gruppo arrivare proprio dov'ero io; presi un tale spavento che feci un salto indietro di due metri. I centauri sembravano dei guerrieri», ricordava lo stesso Ruffo, come riportato nel libro scritto dal figlio Renzo, «il rumore era pauroso e mi sembrava proprio che mi venissero addosso. Tornando a casa, però, non potevo che continuare a pensare a loro, a quei marziani vestiti di nero senza paura. Mi passò l'agitazione iniziale, anzi cominciai a invidiarli e dentro di me dissi: un giorno sarò anch'io come loro!»
In realtà Bruno Ruffo fu addirittura migliore di loro: fu campione nel mondo in classe 250 nel 1949, anno di nascita del Motomondiale, nel Gran Premio motociclistico di Svizzera, e lo stesso avverrà nel 1951 e nel 1950, stavolta in classe 125. Prima di lui, l'Italia non aveva mai annoverato in questa disciplina un campione a livello mondiale.
Di stoffa ne aveva da vendere e lo capirono in molti fin dalla prima corsa che il giovane colognolese fece sulla pista piana di Montagnana, falsificando i documenti perché non ancora maggiorenne; a cavallo della sua Miller 250 salì subito sul secondo gradino del podio. Da quel momento in poi la sua carriera è stata sempre in ascesa, animata da un amore sfrenato per le due ruote, tanto che anche in guerra sul fronte russo fu posto nella polizia in moto: spettò a lui il compito di fare da staffetta su strade di neve e ghiaccio.
Ruffo era fatto di una pasta speciale, quella degli stilisti che stavano in sella alla moto senza una sbavatura. Come Achille Varzi negli anni Venti, come, negli anni Cinquanta, Libero Liberati. Come Varzi, Ruffo non sbagliava mai e, soprattutto, accarezzava la manopola del gas come un allevatore sfiorerebbe la testolina del suo più pregiato canarino. «La macchina», così all'epoca i centauri definivano la motociletta, dava il suo meglio soprattutto in condizioni difficili, sotto la pioggia, quando l'eleganza e l'efficacia della guida diventano un tutt'uno. La memoria va fuori giri ricordando un racconto di Guareschi: il figlio di Peppone aveva la polmonite e don Camillo, saltato in sella al Falcone di un agrario anticomunista, il piccolo legato al petto, era corso via, nella notte, verso l'ospedale della città, dove la penicillina era arrivata. Quel monocilindrico rosso era stato progettato per spingere la moto a centodieci ma quando udì il gemito del piccolo strappò via alla notte il mantello della morte bucando il buio, sotto la pioggia, a centotrenta. Ruffo era anche questo, l'emozione semplice di un'aria di Verdi, una di quelle per cui il popolo, un tempo, fremeva di orgoglio. L'Italia che aveva perso la guerra accodandosi al carro di Hitler dopo aver firmato le vergognose leggi razziali, tornava ad alzare la testa. Sempre di due ruote si tratta: Gino Bartali vinse il Tour de France scongiurando la guerra civile.
Avrebbe vinto il suo quarto titolo mondiale nel 1952, nella classe 250 se un brutto incidente sul circuito della Solitude, a Stoccarda, non lo avesse acciaccato per tutta la stagione. Un altro ruzzolone, sul bello e impossibile circuito del Tourist Trophy, all'Isola di Man, lo convinse a scendere di sella. Nel 2003 il presidente Ciampi conferì l'onorificenza di Commendatore dell'Ordine al Merito della Repubblica Italiana a Bruno Ruffo e con lui altri campioni del mondiale come Giacomo Agostini, Pier Paolo Bianchi, Eugenio Lazzarini e Carlo Ubbiali.

Monica Rama

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