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Reduce di Russia rompe il silenzio

Mario GelioMario Gelio (a sinistra della prima suora) all’ospedale militareIl caporal maggiore fotografato dalla bocca di un cannone
Mario GelioMario Gelio (a sinistra della prima suora) all’ospedale militareIl caporal maggiore fotografato dalla bocca di un cannone
Mario GelioMario Gelio (a sinistra della prima suora) all’ospedale militareIl caporal maggiore fotografato dalla bocca di un cannone
Mario GelioMario Gelio (a sinistra della prima suora) all’ospedale militareIl caporal maggiore fotografato dalla bocca di un cannone

Ci sono ricordi talmente vivi che rimangono incastrasti nella memoria anche se da quei fatti sono trascorsi quasi ottant’anni. Mario Gelio, poveglianese, di 97 anni, ricorda ogni momento, ogni passo fatto durante la seconda guerra mondiale. Arruolato nel 1940, a soli vent’anni, al secondo battaglione dell’ottavo reggimento Artiglieria Pasubio, prima di partire per il fronte, ha svolto a Bosco Chiesanuova il campo di addestramento. «Alle cinque di mattina bisognava svegliarsi, salivamo sui monti vicini e facevamo i primi tentativi sparando con i cannoni verso il Carega», inizia a raccontare. Gli occhi vispi e attivi, i gesti con le mani sono ampi e cadenzati. «Il 10 giugno 1940», prosegue, «l’Italia aveva dichiarato guerra alla Francia e la notizia era arrivata di venerdì. Riuniti tutti alla caserma Passalacqua a Verona, abbiamo caricato di notte i treni e siamo partiti verso il confine, sulle Alpi. Ma lì sono rimasto poco».

Rientrato, la nuova destinazione per Mario Gelio è stata la Jugoslavia. «Nell’aprile del 1941 quando è stata dichiarata guerra al paese balcanico, noi eravamo già in zona. Alla mattina alle 4 era arrivato l’ordine di sparare, per tre ore, per coprire la fanteria che nel frattempo entrava a Sebenico. Ma nessuno aveva posto resistenza». Tornato a la Prà, una corte poco fuori Povegliano, è stato raggiunto da due carabinieri arrivati in bicicletta con l’ordine di rientro immediato in caserma a Verona, per una nuova partenza, destinazione Russia. Senza un dubbio che possa scalfire la ferrea memoria, il caporal maggiore Gelio spiega: “Siamo partiti il 16 luglio 1941. Caricati i treni abbiamo raggiunto il Brennero, per poi continuare verso Vienna, Budapest, Romania, prima di arrivare nell’attuale Ucraina. «L’inverno avanzava e noi siamo sempre rimasti vestiti come quando abbiamo lasciato l’Italia a luglio, anche se io ero fortunato perché ricevevo dei pacchi da casa con guanti e calzini di lana che condividevo con altri», precisa. Durante la campagna di Russia la notte raggiungeva anche i 40gradi sotto zero. «Il respiro si gelava appena uscito dalla bocca, i turni di guardia per questo non duravano più di un’ora; rientrati in casa i cappotti stavano in piedi da soli».

Il primo contatto con il nemico è stato sul fiume Bug. «Bisognava costruire un ponte di fortuna con delle barche. Noi dell’artiglieria, io ero il puntatore dell’obice, sparavamo incessantemente oltre il guado per tenere i nemici a distanza. Era affollatissimo il ponte in quei giorni, unico modo per proseguire. Abbiamo poi preso parte alla battaglia, durata quasi un mese, vicino al fiume Dnepr».

Dopo essere giunti in un piccolo paese russo, le truppe italiane avevano occupato le case abitate. «Abbiamo sostato in una abitazione formata da tre stanze, mentre sul retro lasciavamo il nostro cannone. Eravamo in sette, avevamo una stufa di ferro, ma non potevamo bere dai pozzi, temevamo potessero essere avvelenatati, bisognava sempre bollire l’acqua. Per far ripartire il trattore che trasportava il cannone la mattina, quando le notti erano più rigide, bisognava svuotare il serbatoio, scaldare il motore con il fuoco e poi riempirlo di nuovo».

Le divise, rimaste senza bottoni, venivano chiuse col filo di ferro; pidocchi e malattie erano all’ordine del giorno. La nefrite aveva costretto anche Gelio all’ospedale da campo di Rikovo (oggi Jenakijeve), poco dietro la prima linea. «L’ambulanza mi aveva trasportato con altri due miei amici di batteria, trafitti in pancia da un proiettile. Mancavano le medicine. Solo qualche razione in più di brodo e acqua. Poi sono stato trasferito in un altro ospedale a Stalino, senza vetri con solo i cartoni che coprivano le finestre».

Il successivo controllo medico recitava: T.O., Treno Ospedale, quindi rimpatrio. Il ritorno prevedeva 5 giorni di viaggio. In Italia ha trascorso la convalescenza a Caste San Pietro (Bo) con la cura delle tre elle: latte, letto, lana. Concluso il periodo in ospedale e terminata la licenza Gelio è stato richiamato alle armi nel 15esimo artiglieria Conegliano Veneto. Tuttavia, una proroga arrivata l’ultimo giorno disponibile ha prolungato il periodo lontano dalle armi, mentre, nel frattempo, l’esercito degli Stati Uniti sbarcava sulle coste siciliane.

Nicolò Vincenzi

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