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«I miei vent’anni di pastora con cinque figli»

Giuditta Perfranceschi, la pastora,  nella sua casa di Gaon di CaprinoMaurizio Marogna sul sentiero «della pastora»
Giuditta Perfranceschi, la pastora, nella sua casa di Gaon di CaprinoMaurizio Marogna sul sentiero «della pastora»
Giuditta Perfranceschi, la pastora,  nella sua casa di Gaon di CaprinoMaurizio Marogna sul sentiero «della pastora»
Giuditta Perfranceschi, la pastora, nella sua casa di Gaon di CaprinoMaurizio Marogna sul sentiero «della pastora»

Ormai i sentieri «della pastora» e «della sorgente», ai due lati delle Creste di Costabella, sono diventati percorsi fra i più frequentati del Monte Baldo. Merito certamente della straordinaria bellezza dei luoghi, ma anche dell’entusiasmo e dell’impegno del caprinese Maurizio Marogna che li ha recuperati per affidarli poi alle cure delle associazioni preposte alla supervisione e al censimento della sentieristica. Il sentiero «della sorgente», che si svolge sul lato orientale della Cresta di Costabella, prende il nome da una fontanella spontanea d’acqua, mentre quello «della pastora» ha una storia legata a una persona che questo sentiero lo ha percorso un’infinità di volte: Giuditta Perfranceschi che, assieme al marito Emilio Bronzo e ai cinque figli, per circa due decenni ha condotto avanti e indietro da Gaon ai pascoli del Coal Santo, così come in quelli della Val delle Pré o delle Buse, pecore e cavalli. Giuditta Perfranceschi, che siamo andati a trovare nella sua casa di Gaon, è nata a Costermano nel 1935 ed è poi vissuta sempre ai piedi del Baldo, a Gaon di Caprino, o sul Baldo stesso, soggiornando sei mesi l’anno in quota sui pascoli. «NEL 1973», racconta, «mio marito Emilio, raggiunta l’età della pensione, decide di cambiare vita e di abbandonare il bar trattoria che avevamo qui a Gaon per vivere un’esperienza a contatto con la natura e con la montagna. Insomma, si mette in testa di voler fare il pastore e condurre al pascolo sul Baldo, facendo base al Baito Buse, pecore da latte e da carne». L’iniziativa del marito lascia un po’ perplessa Giuditta che tuttavia acconsente, ancora ignara di cosa significhi fare la vita da pastore ma, soprattutto, cosa significhi vivere sei mesi al Baito Buse, allora in condizioni veramente miserevoli. «Il baito», racconta Giuditta rabbrividendo al ricordo, «era tutto uno spiffero, il tetto era messo male per cui, quando pioveva, bisognava coprire la branda dove dormivamo con un telo di nailon. Per cuocere il cibo c’era un rudimentale focolare di pietre ma per fare legna bisognava scendere - e poi risalire - qualche centinaio di metri sino al bosco sottostante. Occorreva poi fare attenzione alle vipere, numerose. Unico lato positivo era la presenza, a poca distanza dal baito, di una fontana di acqua purissima». Da maggio a settembre Emilio, Giuditta e i figli passavano la giornata a camminare tutto il giorno per accudire alle pecore stando attenti che non andassero sul terreno delle vacche, cioè sui pascoli di Valvaccara e Ortigara. I primi anni Emilio e Giuditta si limitano a far pascolare gli animali, ma poi comprano pecore da latte e così si danno alla produzione di formaggio e ricotta. «I nostri prodotti», ricorda Giuditta, «erano talmente buoni e genuini che, non appena si è sparsa la voce, c’era gente che veniva anche dalla città per comprarli». VERSO LA FINE degli anni Settanta, quando ormai la permanenza al Baito Buse era diventata del tutto insostenibile, i coniugi Bronzo riescono a far portare una piccola roulotte nei pressi dell’allora rifugio Cornetto (oggi Fiori del Baldo), esattamente all’altezza di dove attualmente inizia il sentiero dedicato a Giuditta. «Rispetto al Baito Buse», ricorda ancora la pastora, «la roulotte era un albergo a cinque stelle. Il solo problema era la mancanza di acqua potabile, che dovevamo farci portare settimanalmente. Per lavarci, invece, avevamo una cisterna di acqua piovana». A lavorare assieme alla pastora, oltre al marito Emilio, a turno salivano ai pascoli le figlie Sonia e Sabrina e i loro fratelli Vinicio e Patrizio, tutti di età compresa fra i 16 e i 22 anni. Il più piccolo, Silver, non portava le pecore al pascolo, ma stava assieme alla mamma crescendo sano e sereno al sole del Baldo bevendo il latte della pecora Matita. Nella prima metà degli anni Ottanta le pecore poco a poco vengono sostituite da cavalli aveglinesi ma la vita, per la famiglia Bronzo, non cambia. «Gli unici problemi», riferisce Giuditta, «sono venuti in seguito alla presenza di cani randagi, prima, e dell’ orso, poi. I cani, oltre a sbranare le pecore, le facevano scappare senza meta, spesso spingendole sull’orlo di dirupi sino a farle cadere, tanto che una volta ne abbiamo perse cinquanta in un colpo solo. L’orso, invece, oltre a sbranare pecore e cavalli, mi incuteva terrore, sia per me che per i miei bambini. Per fortuna è stato poco sul Baldo e, furtivo come era arrivato, furtivo se n’è andato». •

Eugenio Cipriani

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