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«Ero prigioniera
e vittima ma ora
ritorno a vivere»

Una sedia rossa, scarpe femminili dello  stesso colore, quello della protesta contro le uccisioni di donne
Una sedia rossa, scarpe femminili dello stesso colore, quello della protesta contro le uccisioni di donne
Una sedia rossa, scarpe femminili dello  stesso colore, quello della protesta contro le uccisioni di donne
Una sedia rossa, scarpe femminili dello stesso colore, quello della protesta contro le uccisioni di donne

Sceglie di chiamarsi Arianna. Lei il filo rosso che la legava a quel marito violento ha però saputo tagliarlo, con i suoi tre figli. A tutte dice che chi è vittima di violenza non deve isolarsi ma chiedendo aiuto.

Lei si è appoggiata alla famiglia, ai servizi sociali, all’associazione Telefono Rosa di Verona presieduta da Sara Gini. E ora si sfoga. Lo fa in un momento cruciale, proprio pochi giorni dopo la fiaccolata tenutasi il 23 giugno a Pastrengo, dopo quella di Garda, per ricordare Alessandra Maffezzoli, la 46enne madre di 2 figli uccisa dall’uomo incapace di accettare la sua decisione di tagliare con lui. Arianna fa un racconto fiume, difficile da sintetizzare, una storia di minacce fisiche, di spudorate aggressioni verbali, di bugie, intimazioni che l’avevano portata ad allontanarsi persino dai familiari e dal lavoro.

Una storia ancora più pesante per l’uso di sostanze stupefacenti e alcol. Racconta questa donna, 43 anni, residente nell’entroterra gardesano: «Mi sono sposata giovane, a 20 anni, incinta, dopo il diploma. Ero innamorata da morire, stravedevo per lui. All’inizio le cose erano normali, anche se aveva strani atteggiamenti: passava da una bontà infinita e una cattiveria inspiegabile per poi tornare normale».

Prosegue: «Col tempo lui cominciò ad avere sempre bisogno di soldi: una volta perché il camion era rotto un’altra perché spariva il carburante. Presi a tenerlo d’occhio, a seguirlo. Arrivai a setacciargli gli abiti finché una sera gli trovai della roba in tasca. Andai dai carabinieri: dissero che era eroina. Rientrata gli comunicai la scoperta e lui reagì assicurandomi che si sarebbe disintossicato. Si fece seguire per due anni dal Sert e nel 2001 nacque la seconda figlia».

L’incubo era destinato però a ripresentarsi. «Purtroppo però ebbe una ricaduta e cominciò ad alternare droga ad alcool», racconta ancora Arianna. «Non era più lui. Era allucinato. Parlava a vanvera tanto che i bambini lo ascoltavano solo se accennavo sì col capo».

«Testimoni», rileva Gini, di «violenza assistita». Perché quell’uomo arrivava ad atti estremi: «Una volta, mentre pulivo le pesche, mi puntò la cassetta sulla schiena facendomi male. Ed era lucido. Poi però riprometteva che sarebbe cambiato e così nel 2003 nacque il terzo figlio. Ma era sempre lo stesso. Il suo era un gioco psicologico. Era bravissimo a manovrare e a recitare. Purtroppo anche la nostra società sbaglia. Considera alcolismo e tossicodipendenza delle malattie, invece sono scelte che lui ha sempre fatto e delle quali è arrivato a dirmi di essere felice».

Ma Arianna non poteva essere felice così. «Finivo per essere vittima di questa sua scelta. Ogni volta mi girava le carte in tavola. Ero sempre io a sbagliare. O per una camicia scollata o per una gonna corta. Così diventava crudele e in mia presenza arrivava a chiedere contatti ad altre donne! Mi umiliava e, ancora, era colpa mia».

Rileva Gini: «Un atteggiamento tipico della mentalità maschilista e possessiva che considera la donna cosa propria». E infatti lui, come prosegue Arianna, la chiudeva in casa, le impediva di andare al lavoro: «Un incubo». A cui ha reagito: «Dopo l’ennesimo litigio, nel 2008 l’ho denunciato per violenza e gli ho detto che, se non fosse entrato definitivamente in comunità, mi sarei separata. Ero stufa. Anche di botte. Lui però non accettava di farsi curare per cui nel 2011 sono seguite altre due denunce ed ho chiesto l’aiuto personale di una psicologa». Passo decisivo: «Quell’anno ho iniziato a staccarmi, andando dai miei, facendomi accompagnare al lavoro da un collega. Di questi anni mi resta il terrore degli ambienti chiusi. A volte, per non prenderle, mi rintanavo in camera piazzando un mobile sulla porta. Non dimenticherò mai la sera in cui mi impedì di uscire dalla vasca da bagno. Sento ancora l’odore del suo sudore e del fiato che puzzava di alcol».

Dopo la separazione, nel 2012, Arianna si è finalmente staccata: «Ho anche chiesto ed avuto la revoca della responsabilità genitoriale e da allora non l’ho più visto. Ormai però non avrei più paura di lui».

Dice Gini: «In questi casi estremi bisogna prendere in mano la situazione. Non si deve rispondere nemmeno a un sms. Vanno tagliati i ponti, appoggiandosi a professionisti. L’ex marito di Arianna avevano atteggiamenti pericolosi».

«Ora», chiude lei, «per le violenze e i trattamenti connessi, è stato condannato a una pena detentiva di un anno e 4 mesi. Il giudice ha però detto che, se dovessi ancora avvisare i carabinieri di un suo avvicinamento, andrebbe in prigione. A tutte dico “reagite e non state sole“. Certe situazioni possono degenerare tragicamente come sta troppo spesso succedendo». Il numero del Telefono Rosa è 045 8015831.

Barbara Bertasi

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