In 41 anni col camice bianco addosso si è presa cura di generazioni di bambini e ha «adottato» altrettante generazioni di genitori: «Coi bambini percorsi di salute, coi genitori percorsi di relazione».
Valeria Geremia, il primo medico pediatra in convenzione del Veronese, va in pensione: «Non è che ci vado», chiarisce subito: «mi ci mandano».
Trevigiana di origine, era arrivata nel Veronese nel 1973 al seguito del marito, il chirurgo Gaetano Interlandi a cui venne offerto un posto in ospedale a Soave: «Manco sapevamo dove fosse Soave, ma abbiamo detto sì. A me mancava la specializzazione in Pediatria, l’avrei fatta a Verona», racconta la dottoressa Geremia. Ha due bimbi piccoli al seguito e decide per un po’ di fare solo la mamma: ottiene la specializzazione e lavora all’ospedale di Borgo Roma fino a quando, nel 1975, le affidano la Medicina scolastica nelle scuole di San Martino Buon Albergo, San Giovanni Lupatoto e San Bonifacio.
«In quegli anni dopo la levatrice c’era solo il consultorio o il medico condotto», raccota. «La prevenzione iniziò così, con le visite a scuola ai bimbi di seconda e quinta elementare».
A Soave ci va spesso, in ospedale ma pure in paese, e un giorno il dottor Bettagno, il farmacista del paese, le propone l’ambulatorio dirimpettaio alla farmacia, da un po’ vuoto. «È stato lui a spingermi, così, verso l’avventura più bella di tutta la mia vita. Sono sempre stata innamorata dei bambini, del loro essere unici: avevo paura, perché in ospedale sei più protetto mentre così dovevo essere io a dare tutte le risposte. Dalla mia avevo Soave, che mi ha accolto dandomi la famiglia che non avevo: avevo Elvira Montanari che si era messa a disposizione per far da nonna ai miei figli e Rosetta Scattolin, l’angelo dell’ambulatorio».
«Così mi son tirata su le maniche», racconta Geremia, «e ho iniziato quel lavoro in cui mettere l’anima». È il 1978, c’è ancora la Saub al posto delle moderne Ulss: lei è praticamente l’unico pediatra in zona e vede migliaia di bambini che arrivavano da ogni paese. Due anni dopo, quando la riforma sanitaria fa nascere il pediatra convenzionato (e anche l’Ulss 24), il suo nome (ed è un nome di donna), è il primo della storia dei pediatri in convenzione veronesi.
Da allora a San Bonifacio è diventata «la Valeria dei bambini»: ingaggiata dalla Saub, è passata dall’Ulss 24, dall’Ulss 20 e ha la comunicazione di cessazione dal servizio su carta intestata dell’ Ulss 9: «Quei primi anni sono stati importantissimi. Si riusciva ad andare a casa ed è importantissimo conoscere l’ambiente di vita e le abitudini, anche alimentari, di una famiglia e di un bambino. Nella società multisfaccettata di oggi quelle visite servirebbero molto, anche come via concreta di integrazione», osserva.
Nel 1980, da mamma e da professionista, visse anche lei la difficoltà di conciliare famiglia e lavoro: «Vedevo i miei bisogni, e capivo che erano gli stessi di tante mamme: lanciai così, all’allora sindaco Trevisoi, l’idea di un asilo nido. Mi rispose picche», racconta il medico, «ma dopo un po’, lavorando con Antonella Chiumento, Lucia Piubello, Laura Pasini e le Oasi, riuscimmo ad aprire il primo nido integrato dell’Est veronese».
In quarant’anni ha visto migliaia di bambini, ma come sono cambiati i piccoli? «Ci sono più patologie scheletriche e carenze di vitamine D oggi perché i bambini stanno troppo poco tempo all’aperto. Manca la libera attività all’aria aperta, quella che fa crescere in armonia: per correre bene», spiega, «o per saltare la corda, devi saper stare in perfetto equilibrio, che è frutto dell’accordo tra corpo e mente. Il miglior trattamento fisiatrico? La palla sbattuta contro il muro».
E i genitori? «Il grosso del tempo l’ho sempre dedicato a loro, ad aiutarli a diventare genitore. Oggi hanno più cultura ma anche più incertezze: si chiedono tanti e a volte troppi perché ma dicono troppi pochi no».
Di vite salvate, da medico, ne ha in archivio tante, e c’è anche qualche storia triste. Ma ci sono pure gli aneddoti, e lei ne ha uno che si impone su tutti: «Erano i primi anni a Soave. C’era Andrea, questo bambino sempre molto loquace in attesa della nascita del fratellino. Un giorno, però, venne da me e non spiaccicò una parola. Gli chiesi allora perché», racconta faticando a trattenere una risata, «e lui si incupì ulteriormente. Spero che il mio fratellino ci sia, mi disse guardando il pancione della madre, ma ho paura che la mamma l’abbia mangiato».