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Giorno della memoria

La storia di guerra
raccontata ai bimbi
era quella del padre

Giorno della memoria
Elvira e Giovanni Bertinato. Hanno atteso cinque anni per sposarsi
Elvira e Giovanni Bertinato. Hanno atteso cinque anni per sposarsi
«Quando torno saprò spiegare»

«Sempre prego il buon Iddio che mi conceda la grazia del ritorno, come pure il Santo di Padova mio protettore»: Luckenwalde, 8 marzo 1945. È un brandello di carta da pane quello che raccoglie l’ultimo disperato appello di un prigioniero: si chiama Giovanni Bertinato, ma quel nome sta scritto solo su un documento che gli hanno consegnato il giorno in cui, nell’autunno del 1944, l’hanno rinchiuso al campo di prigionia ribattezzandolo con un numero: 117.516.

 

IN ALBANIA Ha 28 anni e da quattro è lontano da quella che prima della campagna d’Albania era la sua vita: il lavoro da impiegato del Comune di Montecchia di Crosara, la morosa Elvira Marchi che non vede l’ora di far diventare sua moglie, e la sua famiglia. Parte soldato, Bertinato. È caporal maggiore del Sesto reggimento Alpini, sesta brigata, il 7 gennaio 1941: in tasca una piccolissima agendina della Banca mutua popolare di Verona. Sarà questo semplice oggetto del quotidiano a raccogliere, giorno dopo giorno, fino alla fine del mese di maggio, il racconto di ciò che Giovanni vede e vive. È un «film di carta» in cui si assiste alla morte dei compagni, alla devastazione della guerra, alla miseria e alla disperazione. Ma quella quotidianità è qualcosa che gli diventa impossibile continuare a raccontare, un tragico copione che non vuole più descrivere: «Idem», scrive Giovanni riempiendo con questa unica parola la piccola parte di agenda riservata a ogni giorno. Un «idem» ripetuto per settimane: «Quando torno, saprò spiegare», annota alla fine del diario.

 

LA CATTURA IN ITALIA Ma una volta rientrato nella sua Montecchia si rifugia tra le braccia di Elvira sperando di dimenticare ciò che crede fosse l’inferno. C’è spazio solo per un sogno di vita a due, solo che adesso, nel settembre del 1944, la guerra è in casa, a Montecchia: la rabbiosa ritorsione tedesca contro il paese porta fuoco e distruzione e la vendetta si trasforma anche nelle catture.

 

LA DEPORTAZIONE Nella rete finisce anche Giovanni, che in quel periodo appartiene alla 634 compagnia: è disarmato, ma il soldato tedesco che gli si para davanti non va per il sottile. Gli mette le mani addosso, e lo porta via: passa solo qualche giorno e Giovanni Bertinato varca i cancelli dello stammlager III A di Luckenwalde, un campo di lavoro a servizio dell’industria bellica tedesca a 50 chilometri a Sud di Berlino.

 

LA MALATTIA L’inferno, quello vero, non lo conosce subito da internato militare italiano, ma qualche tempo dopo: malato di tubercolosi viene rinchiuso in isolamento. È consapevole del fatto che per lui, inabile al lavoro, sia la fine: c’è una sola persona che provvede a lui, un altro prigioniero che si chiama Pietro Zanardo e che gli passa sotto la porta bucce di patate e quel che riesce a recuperare. E attraverso quella porta gli dice di aver saputo che all’ambasciata italiana a Berlino c’è un prete veronese che si chiama don Luigi Fraccari e che assiste i prigionieri dei lager.

 

DON FRACCARI Don Luigi, è un veronese. È originario di Pazzon di Caprino, si è fatto nominare cappellano degli operai italiani in Germania, unico modo per poter provvedere alle necessità di internati e prigionieri italiani nei lager tedeschi. È arrivato a Berlino nel maggio del 1944, determinato a soddisfare la sua «reazione della coscienza cristiana contro l’immane barbarie». Tiene contatti tra i prigionieri e le famiglie, informa di decessi, provvede a dare un nome ai morti e salva centinaia di vite firmando i suoi lasciapassare e resterà a Berlino, fino al 1979, per provvedere agli orfani e a chi è in necessità. Pietro suggerisce a Giovanni di scrivere una lettera a quel sacerdote sperando possa intercedere per farlo uscire da lì. Recuperato un pezzo di carta, con una matita Giovanni lancia, l’8 marzo, il suo ultimo disperato appello.

 

IL LASCIAPASSARE Non passa nemmeno un mese, è il 4 aprile, e la Croce rossa italiana a Berlino, esibendo il lasciapassare firmato da don Fraccari, viene fatto uscire dall’isolamento. Giovanni sente già il profumo di casa, ma la guerra ancora una volta si impone su tutto. Le avanguardie americane scatenano su Berlino violentissimi bombardamenti e sfuma così il sogno di salire su un treno che lo riporti a casa. Malato di tubercolosi. Non si regge in piedi, si mette in cammino e si dà un obiettivo: raggiungere il Brennero dove sa che troverà il compaesano Nicola.

 

VERSO CASA Si muove a piedi, su mezzi di fortuna, e lungo il suo pellegrinaggio scopre che un popolo è fatto anche da chi sa dire no: alcuni tedeschi gli fanno far strada nascondendolo in un carretto di fieno, altri gli danno una bicicletta per accelerare il viaggio. Eccolo, finalmente, il Brennero: Giovanni ci è riuscito, ce l’ha fatta solo che è in condizioni tali da essere irriconoscibile agli occhi di Nicola. Sono i ferrovieri del Brennero a farsi carico di questo spettro d’uomo organizzando il suo rientro a Montecchia. A quel punto il lieto fine sembra dietro l’angolo, e si chiama matrimonio: ma la tubercolosi comanda e dopo aver riabbracciato Elvira, Giovanni viene spedito in sanatorio. Ci vorranno altri cinque lunghissimi anni, inframezzati dalle bugie con cui Elvira imbroglierà i genitori e andrà a trovarlo prima a Varese e poi a Budrio, perché i due ragazzi possano dirsi reciprocamente sì.

 

SPOSI Accade il 12 maggio del 1951, a Montecchia. Un anno dopo nasce Luciana, poi arriva Gianfranco. È alla figlia, il giorno del suo diciottesimo compleanno, che papà Giovanni racconta di quel prete che gli ha salvato la vita firmando un lasciapassare e col racconto le esprime l’incontenibile desiderio di dirgli grazie. Ma di don Fraccari non c’è traccia e Giovanni conclude prematuramente i suoi giorni, nel 1973, senza aver esaudito il desiderio. Ci vorranno più di vent’anni, a Natale del 1993, perché sia lo stesso don Fraccari a rendere possibile ai figli e a Elvira ciò che a Giovanni non è riuscito. È lui che telefona a Elvira e Luciana: «Ho trovato una lettera scritta nel 1945 da Giovanni. Vorrei avere sue notizie, l’ho fatto uscire io da quell’inferno». La donna trasalisce e i figli l’indomani sono sotto casa di don Fraccari: il loro grazie non ha parole ma solo lacrime chiuse in un abbraccio infinito. Don Fraccari racconta ciò che sa e, soprattutto, consegna ai figli quel pezzo di carta su cui c’è la sua firma che per Giovanni Bertinato è stata la vita.

 

STORIA INEDITA Questa storia, per la prima volta raccontata a L’Arena, sino a qualche giorno fa la sapevano solo i bambini: Luciana, maestra per una vita, negli ultimi anni ha deciso di onorare la promessa fatta a don Luigi Fraccari e di mantenere la parola anche con suo padre raccontandola ai piccoli suoi alunni come una storia d’amore dentro la guerra. L’ha condivisa qualche giorno fa con un centinaio di commossi «studenti» dell’università popolare di Soave, dove abita da sempre. E ora, col fratello Gianfranco, culla tre desideri: mettere insieme i pezzi della storia del padre che le mancano, richiedere la Medaglia d’onore ai deportati per suo padre e magari, un giorno, la storia di amore dentro la guerra scriverla lei. •

Paola Dalli Cani

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