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La tragedia di Lavagno

Il dolore a scuola «Elia era speciale, ci faceva sempre ridere»

La tragedia di Lavagno
Il calcio era la grande passione di Elia
Il calcio era la grande passione di Elia
Il calcio era la grande passione di Elia
Il calcio era la grande passione di Elia

I pensieri più profondi, quelli che non sono riusciti a dirgli, come il bene che gli volevano, lo raggiungeranno in cielo, perché lì arriveranno, grazie ai palloncini che li porteranno in alto, fino a lui.

«Metteremo nei palloncini colorati i nostri messaggi e le nostre dediche per Elia e poi li lanceremo il giorno del funerale (sarà sabato, ndr) », spiegano alcuni suoi compagni di classe appena usciti dalla scuola media Don Lorenzo Milani di San Pietro di Lavagno.

Elia è Elia Rizzotti, il bambino di 11 anni di San Pietro di Lavagno, morto nella notte di lunedì nella terapia intensiva pediatrica di Borgo Trento dov’è arrivato domenica sera in condizioni disperate dopo essere stato soccorso in arresto cardiaco a casa dal Suem. Aveva la febbre da qualche giorno, ma sembrava si trattasse di influenza. Nessuno avrebbe potuto immaginare che finisse così.

 

«Ma non faremo solo questo», aggiunge un’altra compagna. «Stiamo anche preparando delle magliette speciali per il torneo di palla prigioniera che faremo a scuola il 18. Su ognuna ci sarà il nostro nome e alla fine le regaleremo tutte alla mamma di Elia».

I compagni di Elia stanno cercando di fare comunque qualcosa di bello per il loro amico, perché a 11 anni è difficile accettare che qualcosa di così brutto sia accaduto. Difficile accettare che il tuo compagno di classe, quello più simpatico, che rendeva più allegre e spensierate le tue giornate a scuola, non torni più, neanche per salutarti. «Elia ci faceva sempre ridere», ricordano i suoi compagni. E per un attimo ritrovano il sorriso, tornando alle «imprese» di Elia che li faceva divertire di più. Poi la tristezza torna nei loro occhi. Restano silenziosi, vicini, ma ognuno prigioniero del suo dolore e dell’incredulità.

«Non sembra vero», dice un ragazzino dando voce ai pensieri di tutti. «Lo vedevi», continua, «non era tanto alto, era magro, ma pieno di energia. Non avresti mai pensato “Domani muore”». E si ferma. «Diceva cavolate, scherzava, era simpaticissimo».

 

Nell’aria restano sospese le domande: Perché è successo? Perché proprio a lui? Perché si può morire così? Ma a 11 anni le domande ti restano aggrovigliate dentro. Tutti sapevano del suo amore per il calcio, del fatto che da cinque anni giocava nell’Associazione calcio di Colognola, della sua passione per l’Hellas Verona e per Luca Toni.

Ma nessuno sa se da grande avrebbe voluto fare il calciatore. Neanche il suo amico di più lunga data. «Lo conosco da una vita», ha spiegato un ragazzino dai capelli scuri. «Da dieci anni», aggiunge fiero. «Giochiamo sempre insieme nel campetto di via Fontana, ma in effetti non mi ha mai detto cosa voleva fare da grande». Al parco giocava con lui anche Francesco. «Era uno dei migliori amici, ci conoscevamo da quattro anni», dice. «Giocavamo anche con la Playstation. Mi piaceva stare con lui, perché si rideva e scherzava sempre. Cos’aveva di speciale? Il sorriso e una voce simpatica e buffa». Sorride, ma gli occhi tradiscono le lacrime. E non solo i suoi. I compagni spiegano che tra loro parlano di Elia e che anche a scuola se ne è parlato. Dicono che dopo aver saputo cos’era successo al loro amico anche alcuni di loro hanno avuto paura di aver preso la stessa «malattia».

Lo confessano più i maschi, mentre le compagne di classe dicono di non aver mai avuto questo timore. E dicono anche che a casa i genitori si comportano in modo diverso. «Mio papà evita l’argomento ma cerca di tirarmi su il morale facendomi fare delle cose che mi piacciono», racconta un ragazzino del gruppo. «Lo so che lo fa perché non sia triste. «Mia mamma invece si è messa a piangere quando l’ha saputo», racconta un’altra ragazzina. «Non ne vuole parlare». «I miei genitori, invece, vengono spesso a parlarmi di Elia e mi chiedono come sto», dice un’altra ragazzina. «Stanno male anche loro, si vede».

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Chiara Tajoli

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