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Il canto sul fuoco che bruciò il paese

Case incendiate per rappresaglia. La fotografia è di Elio Nardi
Case incendiate per rappresaglia. La fotografia è di Elio Nardi
Case incendiate per rappresaglia. La fotografia è di Elio Nardi
Case incendiate per rappresaglia. La fotografia è di Elio Nardi

Suo padre era solo un bambino quando assistette all’incendio del suo paese e della sua casa: oggi, quel bambino, 74 anni dopo, ha deciso di raccontare in musica quel tragico capitolo della storia di Montecchia di Crosara. Renato Trevisan, il padre che vide l’incendio, ha 83 anni, suo figlio Davide 32 ed è il più piccolo dei cinque figli. Fin da piccolo, Davide ha ascoltato il papà raccontargli la triste storia dell’incendio che, a causa di una ritorsione nazifascista, distrusse buona parte del paese. Era il 3 settembre del 1944. A sua volta voleva raccontarla e così Davide ne ha fatto una canzone, La marantega, che ha scritto, musicato e cantato con il suo gruppo, Il Crimine. GRAZIE AI SOCIAL, sui quali la band ha rilanciato il brano, e grazie a un post accompagnato da un video con qualche minuto di racconto, sia questo capitolo di storia locale che il testimone Trevisan sono diventati celebri. «Ho sempre e solo raccontato il fatto in famiglia», spiega Renato Trevisan quando lo incontriamo, «troppo grossa questa cosa, troppo dolore, e poi i fatti erano ancora molto recenti». È quasi ritroso a parlarne: «Lo dica che è per via della canzone», si raccomanda quasi prendendo ancora le distanze da ciò che vide e visse. In un istante è con la memoria al primo di settembre del 1944: al mattino lui, assieme al fratellino di due anni più grande e alla mamma Luigia, «la Bia», andarono al Grumolo basso, a casa della nonna paterna Elisa. C’ERA SOLO LA BIA, rimasta vedova del lattaio Attilio sette anni prima, a tirare avanti la famiglia nella casetta di Rio Albo e dalla nonna c’era sempre da mangiare un poco di salame con le «cioppe» di pane, una provvidenza. DECISERO di tornare verso casa, guadarono l’Alpone quando si accorsero che un gruppo di partigiani stava risalendo il fiume verso la zona del ponte Facchin: «Poco dopo sopraggiunse una motocarrozzetta con a bordo tre soldati tedeschi: si accorsero dei partigiani e li fermarono. Mi avevano raccontato che in quei giorni vigeva una specie di tregua, ma i due fronti iniziarono a battibeccarsi fino a quando uno dei soldati tedeschi estrasse la rivoltella e la puntò contro Enrico Scrinzi. La risposta dei partigiani fu una raffica di mitra della quale ancora sento il fragore. Noi scappammo il più velocemente possibile verso casa». Scrinzi morirà all’ospedale di Soave, mentre sulla piazza di San Giovanni Ilarione, domenica 3 settembre, dopo i funerali dei tre soldati tedeschi uccisi, si sarebbe consumata la ritorsione con le sevizie prima e la fucilazione poi di tre prigionieri fatti giungere dalla caserma di San Michele Extra. «Arrivammo a casa e facemmo appena in tempo a lasciare sul tavolo della cucina quello che ci aveva dato la nonna quando passò davanti alla porta il vecchio calzolaio del paese. Teneva sotto braccio, avvolte in un lenzuolo, le sue cose e gridava di scappare perché dopo quel che era successo ci avrebbero ammazzati tutti. Mia madre chiuse la porta e ci prese per le braccia correndo verso la collina: ci riparammo prima al Casteletto ma la mamma si accorse che non aveva nemmeno un cambio per noi e decise di tornare indietro. Mio fratello e io», racconta Renato Trevisan, «ci aggregammo ad altri del paese in fuga, salimmo verso la vecchia strada dei Cesari fino alla contrà dei Gaiardi dove il sarto Zaccaria offriva riparo». «La mamma li raggiunse poco dopo e alle 3 del mattino, terrorizzati, tutti ci mettemmo in cammino verso l’antica contrada di Soraighe». Il gruppo era composto da una trentina di sfollati: «Venimmo accolti in una vecchia casa che il proprietario trasformò in rifugio per la notte, usando balle di fieno. Ci dividemmo un pollo piccolo e magro, che sarà pesato un chilo e che una vecchietta aveva portato con sé nella fuga» Venne la domenica e con essa anche le voci relative al fatto che sul paese non si sarebbe scatenata alcuna vendetta. «Decidemmo di tornare a casa, ma per strada incontrammo Giovanni Pescio, che sarebbe diventato mio suocero: portava sulla spalla una canna con attorno annodato un fagotto. Parlò con mia madre e quando sentì che stavamo rientrando si fece serio e le disse che al suo posto avrebbe fatto marcia indietro perché la calma che regnava in paese non lo rassicurava per niente. Mia madre gli diede retta e facemmo appena in tempo ad arrivare ai Tolotti che vedemmo, verso il paese, gli spari, i pagliai che prendevano fuoco, fiamme e fumo ovunque, anche su casa nostra». DOPO AVERLE DEPREDATE, i tedeschi diedero fuoco alle povere case: «Morirono in sette», racconta Renato che poi ricorda la vita da sfollato, «prima ospiti della famiglia Turella, poi con altre 25 persone dalla nonna e infine divisi tra le famiglie di due zii». Il giorno dopo, sotto un cumulo di cenere e sassi che erano ciò che era rimasto della loro casa, fu Renzo, fratello di mamma Luigia, a ritrovare un vecchio e scucito guanto da uomo: era ciò che si era salvato, dalla razzia prima e dal fuoco poi, del pietoso tesoro che mamma Luigia aveva composto con gli effetti personali dell’amato Attilio morto solo sei anni dopo le nozze. La radio di casa venne ritrovata qualche anno dopo a San Giovanni Ilarione. A 12 anni, imparando a fare il falegname, Renato diventò un uomo. •

Paola Dalli Cani

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