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«I cippi romani? Erano parte
di torchi per l’uva e le olive»

L’idea lanciata dal Comune di commissionare uno studio archeologico per approfondire le testimonianze lasciate dai Romani a Colognola, incluso ciò che resta della centuriazione, sta suscitando interesse: rispolvera una pagina di storia risalente addirittura al 100 a.C., epoca dei primi insediamenti sui colli e più di qualche appassionato o curioso, in attesa di vedere gli esperti all’opera, ha rimesso mano alle proprie conoscenze sul territorio.

Tra le voci più significative si fa strada quella di Giuliano Rossi, architetto colognolese con una spiccata passione per la storia antica locale, coltivata fin da bambino, raccogliendo moltissima documentazione fatta di testi, articoli di riviste, foto, progetti e anche di un’interessante comparazione fra teorie della quale vorrebbe mettere al corrente gli archeologi che condurranno lo studio sul territorio.

La riflessione di Rossi suggerisce un lettura diversa dei cippi di epoca romana rinvenuti a Colognola e ancora presenti sul territorio, che «fino a oggi sono stati interpretati dalla maggioranza degli e- sperti come “gromatici”, cioè blocchi di pietra che i Romani posavano agli incroci delle strade come segni di confine nell’ambito della centuriazione». Per lui, invece, le cose potrebbero non stare così.

«Ritengo che si possa applicare anche ai cippi di Colognola la teoria elaborata per altre zone dallo studioso Paolo Liverani negli anni ’90. Per Liverani», spiega l’architetto, «non si tratterebbe di cippi “gromatici” e quindi di termini muti di centuriazione, bensì di massicci blocchi di pietra, pesanti alcuni quintali, che venivano impiegati come contrappesi di torchi a leva e vite, usati dai Romani per spremere uva e olive. Questa teoria, che nella sua elaborazione non fa riferimento diretto ai cippi di Colognola, a mio avviso potrebbe, invece, essere calata anche nel nostro contesto, dove troppe volte questi blocchi sono stati ritenuti gromatici».

Rossi, che prima di avvallare la teoria di Liverani ha studiato a fondo anche quelle di altri esperti tra i quali De Bon, Fraccaro, Bosio, Franzoni, Rosada, Manasse e Alpago Novello, è convinto che i cippi colognolesi potrebbero essere parti di un torchio anche sulla base di altre sue riflessioni: «I cippi gromatici di solito erano a forma di parallelepipedo, di dimensioni contenute e curati dal punto di vista estetico perché, sorgendo agli incroci delle strade, erano visibili a tutti. Quelli che ci sono in paese, invece, sono dei massi pesanti qualche tonnellata, circolari, piuttosto grossolani e non certo apprezzabili esteticamente. È strano che i Romani, attenti all’aspetto estetico, avessero scelto di posizionarli in queste condizioni agli incroci. Cippi simili si trovano anche nei paesi vicini; scorgendone uno a Campiano, mi sono chiesto che strade particolari potessero esserci in quella zona collinare poco agevole di Cazzano, che valesse la pena segnare con un cippo gromatico. Invece potevano trovarsi in quei posti dei torchi: la Val d’Illasi, la Tramigna, come la Valpolicella, sono terre di viti e olivi. Con il torchio più comune le vinacce o la pasta di olive venivano schiacciate con un trave orizzontale, mosso per mezzo di una vite di legno, ancorata a terra da un grosso masso. Se si osservano bene, questi cippi hanno impressi dei solchi a coda di rondine con al centro una specie di coppetta; studiosi precedenti al Liverani, come la Alpago Novello, ne hanno dato un’interpretazione che prevedeva dei manufatti piuttosto artificiosi per essere termini muti di centuriazione. Invece, trattandosi di torchi», riferisce l’archietto, «questi incassi verticali e simmetricamente opposti dovevano servire proprio per trattenere ben salda la vite senza fine al torchio; non è un caso che vicino ad alcuni, per esempio in Valpolicella, siano state trovate delle vasche per raccogliere il frutto della spremitura».

Rossi invito gli archeologi che condurranno lo studio a Colognola «a considerare questa lettura nuova per i cippi, abbozzata anche dallo studioso Marco Pasa nel suo libro sulle ville locali. E sarebbe utile che lo studio sfociasse in una pubblicazione con raccolte tutte le teorie degli esperti sul territorio, in modo che chi in futuro vorrà cimentarsi sullo studio del paese possa trovare tutte le interpretazioni date». M.R.

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