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«Un incubo durato due anni
Adesso ricomincio a vivere»

Moreno Nicolis con gli avvocati Alessandro Comunale Butturini, a sinistra, e Massimo Leva DIENNE FOTO
Moreno Nicolis con gli avvocati Alessandro Comunale Butturini, a sinistra, e Massimo Leva DIENNE FOTO
Moreno Nicolis con gli avvocati Alessandro Comunale Butturini, a sinistra, e Massimo Leva DIENNE FOTO
Moreno Nicolis con gli avvocati Alessandro Comunale Butturini, a sinistra, e Massimo Leva DIENNE FOTO

«Quando mi hanno portato a Montorio ho riconosciuto le porte. Le avevo fatte io». Moreno Nicolis, imprenditore nel settore del ferro da generazioni «ho ereditato l’impresa da mio papà, sono nato in mezzo al ferro, i me ciamava ”magnaferro”» è un uomo dal carattere forte. Ha il sorriso aperto e un fisico massiccio: ora la racconta, la esorcizza ma la vicenda nella quale è rimasto coinvolto due anni fa lo ha cambiato, «i m’ha desfà ma adesso sto meno peggio di prima».

«Il 28 gennaio 2015 sono arrivati alle 4 di mattina, erano in 14, hanno riempito il cortile di casa. Sa, come mi ha insegnato mio padre, alle 5 apro il cancello dell’azienda. Non mi sono spaventato per l’orario, era che non capivo. Mi hanno consegnato un pacco di carte ma non riuscivo a capire perché mi stavano arrestando, sapevo di non aver fatto niente di illegale».

Il pacco di carte era l’ordinanza emessa dalla Dda di Brescia che lo accusava di avere tenuto contatti con la famiglia Grande Aracri e di aver commesso un’estorsione a un impresario edile con modalità mafiose. Accusa dalla quale è stato assolto tre giorni fa con la formula più ampia, «perché il fatto non sussiste».

«Non ce l’ho con nessuno, anzi, ringrazio i giudici del tribunale di Brescia che in questo processo molto lungo e con molti imputati hanno saputo valutare con obiettività il mio caso». E cioè quello di un imprenditore da sempre abituato a guardare negli occhi i clienti e i fornitori, con pochi filtri.

«Sono andato in Calabria come sono andato in tutti gli altri posti dove c’erano i miei cantieri perché questo è il mio modo di fare, non mi sono mai affidato al telefono o alle mail. Se mi propongono un incarico voglio vedere con i miei occhi cosa devo fare, il cantiere dove la mia azienda lavorerà e tratto di persona. Sono sempre stato così. E sarò sempre così».

Arrestato, poi mandato ai domiciliari, dopo 18 giorni arrestato di nuovo e portato prima a Montorio, poi a Voghera. «La seconda volta è stata la peggiore. Quello mi ha steso, e ce ne vuole perchè sono un uomo temprato, ma è successo. A Montorio ho riconosciuto le porte, le avevamo fatte noi, e sono rimasto otto giorni da solo. Sono abituato a muovermi continuamente, diventavo matto a non far niente, così ho pulito la cella da cima a fondo. Poi mi hanno spostato. ”Non me tocarà netarle tutte” ho pensato». Sorride, un sorriso aperto sormontato da due occhi di un azzurro scuro, che non nascondono niente. «Quello che penso dico, per questo non capivo».

E le cene, quelle con duecento persone? «Guardi che le faceva mio padre, ogni anno, quando si ammazza il maiale. E le faccio anch’io. Si preparano i salami e i cotechini, gh’è i ossi e tutto il resto. Due giorni in cui si lavora e la sera si fa festa, il venerdì con i clienti, gli amici, i professionisti che ci affiancano, il sabato con gli operai e i dipendenti perchè in quel giorno non lavorano. Sa cosa mi ha ferito? Il fatto che ci sono state persone che non hanno mancato di strumentalizzare questo e anche il mio processo per attaccare politicamente altre persone dicendo che ero un affiliato alla mafia anche se non sono mai stato accusato di una cosa così grave».

Un fiume in piena, come nel suo carattere: «Ogni volta che si parlava di ’ndrangheta, anche se il mio processo non c’entrava niente, veniva fatto il mio nome. Le lascio immaginare il danno, per l’azienda, per il lavoro».

Carattere forte ma non è stato facile riprendere, perchè se nessuno firma stipendi o paga i fornitori, se mancano disposizioni per gli ordini un’azienda si ferma. «Già, ho dovuto elemosinare la fiducia dei clienti per poter lavorare ma quelli che mi conoscono sono rimasti, gli altri sono spariti, anche le banche. Il mercato non è in un periodo florido, avevo poche scorte di denaro ma ho ricominciato».

Casa e bottega, il retro della villa di via Turbina si affaccia sull’Adige e l’occhio spazia da Pescantina alla Valpolicella. E nella taverna, una serie di enormi stanze collegate l’una all’altra, ci sono i lavandini in pietra del nonno «questo è nembro della Lessinia, quell’altro invece è biancone. Queste sono le sale dove si fa festa, da sempre». Su una parete la foto degli anni Sessanta con il grattacielo di piazza Renato Simoni: «Sì, anche questo è opera nostra, cioè di mio padre. Ho la pelle dura e ho sempre lavorato, dormito in cantiere e trattato personalmente. Quando sono andato giù (con Gualtieri, anch’egli assolto, ndr) ero con l’impresa con cui avrei dovuto lavorare. E sono finito nella tana del lupo». La famiglia e i dipendenti gli sono sempre stati accanto, non hanno mai perso fiducia in lui. «Un mio familiare invece mi ha voltato le spalle. Ma non ne voglio parlare. I miei legali (Leva e Comunale Butturini, ndr) hanno lavorato sodo e bene. Sa, ho passato mesi dormendo due ore a notte, ora riesco a riposare un po’ di più». E alle cinque apre il cancello della Nico.Fer. Come fa da sempre.

Fabiana Marcolini

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