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Mi comporto come un’atleta Vita sana e allenamento
per mantenere agile la voce

Luciana D’Intino nei panni di Carmen in Arena
Luciana D’Intino nei panni di Carmen in Arena
Luciana D’Intino nei panni di Carmen in Arena
Luciana D’Intino nei panni di Carmen in Arena

Quando incontri un’artista di «vecchia scuola», come Luciana D’Intino, potresti parlare di musica operistica all’infinito, con tutte le complicanze che poi interessano la voce, ma anche la disciplina, il rigore, il suo apprendimento che sono il fondamento della carriera di un cantante d’opera. Il celebre mezzosoprano friulano, ritorna stasera come protagonista di Carmen per l’apertura del 94° Festival areniano, dopo dieci anni di assenza dal nostro anfiteatro.

Che impressione le dà ritornare in Arena dopo tanto tempo?

Intanto di essere invecchiati (grande risata). Poi devi trovare il coraggio, perché ti aspetta un compito difficilissimo: la struttura dell’Arena è pesante. Lo spazio è enorme e ti devi adeguare ad una certa fatica, anche se i risultati sono poi piacevoli.

Cosa ammira di Carmen: l’amore, la libertà, vivere tutto fino in fondo?

La sua concretezza. Carmen non è una innamorata. È un prototipo di donna che non esiste, eccetto che nell’epilogo dell’opera. Una donna che immolandosi diventa un mito. Un’icona che piace a tutti, mondo maschile compreso. Il personaggio si colloca perfettamente in una città come Verona, che in parallelo ha già un altro mito come Giulietta.

Qualcuno ci suggeriva che il dilemma di questa Carmen è di cosa si perde e di cosa si vince con l’amore.

Con l’amore si può vincere tutto e si può perdere tutto. Ma vale la pena rischiare.

Che differenza vocale c’è tra interpretare Carmen e Amneris con la quale si confronterà più avanti nel festival?

Sono due mondi totalmente diversi. Carmen ha una scrittura abbastanza regolare, di note centrali, tanto che la interpretano anche i soprani, come fece Mariella Galli, la prima Carmen della storia. Il canto di Amneris ha più sfaccettature: una vocalità molto più lunga, con diverse puntature come in tutte le eroine verdiane.

Quali ruoli predilige cantare e ai quali è più legata?

Ho iniziato come belcantista con molto Donizetti e Rossini, prima di transitare verso il mio adorato Verdi. Mi ritengo una verdiana nell’anima. Dopo 33 anni di carriera mi dedico quasi esclusivamente al verismo e al Verdi del Don Carlo (l’amata opera del mio esordio), del Trovatore e di Aida.

Quanto si spende per arrivare ai grandi palcoscenici?

Tanto, come in tutte le arti e professioni fatte con passione. Ma si acquista anche molto, in mestiere ed esperienza: una mano dà, l’altra prende. Sono tutti mestieri oggi fra i meno riconosciuti.

Il sacrificio dello studio, ma anche una vita sana, sono le armi vincenti nell’arte del canto?

Io provengo da una vecchia scuola, rigorosa nello studio, regolare nella vita, perché in fondo siamo anche degli atleti. Si paga molto perché il nostro strumento è delicatissimo, come un violino Stradivari. Va quindi preservato con cura. Io tengo molto al mio: mi ritirerò in piena forma.

Lei ha iniziato anche ad insegnare all’Accademia della Scala. Speranze di trovare un’altra D’Intino?

La cerco. Non so se sarà meglio o peggio. Però la genetica in questi anni è anche cambiata. Ci sono brave ragazze, ma sono tutte vocine.

Ma è davvero finita l’era d’oro del melodramma italiano?

Si dice di sì. Siamo ormai in un’altra era, il mondo è cambiato. Forse il metallo da forgiare non è più lo stesso. Ci inventeremo qualcosa d’altro? Non lo so.

Di cosa avrebbe bisogno l’Arena per tornare ai fasti di un tempo?

Di ricominciare da zero. Come si dovrebbe fare nelle scuole materne e nelle famiglie perché la musica ci appartiene, come la nostra lingua, diventata ormai anglosassone. Siamo nel Paese dell’arte, della bellezza, i primi della classe in tutto nel mondo e siamo diventati gli ultimi. Non ci resta che ricominciare da capo, però con un costo non solo materiale: ci vogliono nuove energie, nuove sensibilità e attitudini.

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