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Khadija: bruciati i polpastrelli per non far identificare il corpo

Khadija Bencheikh, la vittimaGli uomini del Ris mentre analizzano il bagno dell’appartamento
Khadija Bencheikh, la vittimaGli uomini del Ris mentre analizzano il bagno dell’appartamento
Khadija Bencheikh, la vittimaGli uomini del Ris mentre analizzano il bagno dell’appartamento
Khadija Bencheikh, la vittimaGli uomini del Ris mentre analizzano il bagno dell’appartamento

Più che un omicidio, potrebbe essere stata un’esecuzione. Magari non pianificata, non premeditata. Ma Khadija Bencheikh, quarantaseienne marocchina, che tanto lavorava e pensava a mandare avanti la baracca, la sera che rientrò in casa «doveva» essere uccisa. Forse perché aveva visto qualcosa che non doveva vedere. La sera dell’omicidio è probabile che Khadija sia entrata nell’appartamento di piazzale Olimpia 54 in un momento in cui Agim Ajninaj, il suo compagno stava parlando con il fratello Vezir, 54 anni, residente a Milano. Forse Khadija aveva già litigato con quell’uomo, forse aveva già espresso delle perplessità sulla famiglia del suo compagno, forse ha minacciato di andare a dire alle forze dell’ordine quello che sapeva. Chissà. Ma la rabbia è esplosa violenta. Chissà se il reo confesso Agim, malato di Parkinson, in una forma grave, è stato il primo a sferrare un colpo. Lui si è addossato la colpa di quell’omicidio. Fin dall’inizio ha detto che aveva fatto tutto da solo. Sono stati gli uomini del Nucleo investigativo di Verona a scoprire il resto. Sono stati sempre loro poche ore dopo il ritrovamento di quei pezzi di corpo a dare un’identità alla vittima. Eppure i suoi, o il suo assassino, avevano tentato in tutti i modi di rendere irriconoscibile quel corpo. Alla mani di Khadija sono stati bruciati i polpastrelli. Un modo per non farla identificare dalle impronte digitali depositate in questura, visto il suo permesso di soggiorno. È possibile, e ad orrore se ne aggiunge altro, che quelle mani fossero già staccate dal corpo. La ricostruzione è agghiacciante. Khadija colpita forse alla testa, svenuta, ma viva, viene portata nella vasca da bagno del piccolo appartamento del primo piano. E lì viene fatta dissanguare. Sì perché pare che lei sia proprio morta dissanguata. Nei suoi tessuti, durante l’autopsia non è stato trovato un millilitro di sangue. Ma quel sangue non sarebbe stato lasciato scorrere giù nelle condotte dell’acqua. In qualche pozzetto avrebbe potuto essere ritrovato. Se ci fosse stato un guasto a breve sarebbe saltato fuori. No, quel sangue è stato raccolto, forse con una bacinella e poi messo in alcuni bottiglioni. Perché le immagini delle telecamere del palazzo, quei bottiglioni li mostrano. Ricordiamo che i frame del 29 dicembre dimostrano che ci sono tre persone che escono dopo le 23 con dei sacchi di plastica in mano. E c’erano pure i bottiglioni che spuntavano. Un lavoro simile, con tanto di depezzamento del cadavere non è opera di un dilettante. Di uno che si improvvisa assassino. La famiglia, il clan Ajdinaj, Khadija mal la sopportava. Lo dimostra il fatto che lei e Agim avevano lasciato la bella casetta in cui abitavano dietro lo Stadio quando in quella casa avevano iniziato ad arrivare i nipoti. Uno di loro proprio per aver aiutato lo zio a trasportare i resti era finito in carcere ed ora resta indagato. Forse all’epoca Khadija aveva detto «o via loro o via io» e così la coppia s’era spostata lasciando la casa ai nipoti. Agim dipendeva da Khadija. Quando lo avevamo intervistato lui aveva detto che lei era «il suo dio». Ed era vero, lei lo accudiva, puliva la casa, lo curava. Poi è successo qualcosa di grave, al punto che ha prevalso la regola del clan. Cancellati anni di vita insieme, così come la candeggina ha ripulito tutto l’appartamento dopo l’omicidio. •

Alessandra Vaccari

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