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«I giovani in uno stato di stordimento
Non abbiamo parlato dei loro amici»

«Uno stato di stordimento» è l’immagine che, per la psichiatra Mirella Ruggeri, accomuna i primi momenti dei liceali ungheresi sopravvissuti al dramma del pullman andato a fuoco in A4, dove sono morte 16 persone, in gran parte compagni di studio. Professore Ordinario di Psichiatria che opera nell’ambito della salute mentale di Verona, ha dato un contribuito assieme a molti altri professionisti veronesi nell’opera di aiuto a favore delle persone uscite indenni dall’incidente e poi con i genitori dei ragazzi giunti dall’Ungheria con la speranza di trovarli vivi e la disperazione per alcuni di scoprirli morti. Un intervento difficile, fatto assieme a colleghi, a psicologi della polizia di Stato e a un team di psicologi e medici giunti dall’Ungheria, che a Verona, come in altre situazioni, tipo il terremoto del centro Italia, ha seguito linee guida riconosciute a livello internazionale per le emergenze ma ha saputo tenuto conto anche delle specificità del caso. Una tra tutte, la questione linguistica, subito superata dalla creazione di un team di interpreti. «A funzionare», dice, «è stato in primo luogo il fatto che si è creato subito un perfetto raccordo tra tutti i soggetti in campo. La regola base in queste situazioni di emergenza è infatti che tutti i gangli del sistema in campo operino in sinergia e nella stessa direzione». «Si è lavorato» spiega, «per tenere unito il gruppo dei ragazzi, e per evitare al contempo che si creassero gruppi con elementi emotivi troppo disomogenei. Per rispetto dei sentimenti individuali, sono stati separati i genitori che avevano la certezza che i propri figli erano vivi da quelli non hanno i propri congiunti tra i sopravvissuti». Anche per il prelievo del Dna, i familiari delle possibili vittime sono stati assistiti dagli psicologi. Per quanto riguarda i ragazzi», Mirella Ruggeri ricorda che «si è evitato di parlare della sorte dei loro compagni. Gli stessi bagagli recuperati dal rogo del pullman sono stati tenuti in una stanza non accessibile per evitare che si scatenassero meccanismi di ricordo troppo violenti».

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